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In diversi saggi e articoli su questo romanzo compare inevitabilmente il riferimento al “Nome della rosa”, uscito cinque anni dopo. In effetti, è difficile non rimanere colpiti da alcuni elementi, per quanto di superficie, che accomunano i due romanzi. Sulla questione è tornato Giuseppe Lupo nel suo saggio introduttivo all’edizione Bompiani 2022. Lupo sottolinea che anche in Pomilio c’è «quel tentativo di recuperare il palinsesto della Storia come categoria interpretativa, (…) senza l’atteggiamento dottrinale-nomenclatorio di Eco, che colpevolizza la Storia e inscena un processo contro le sue istituzioni. / Il quinto evangelio ha tutte le credenziali per fare da battistrada a Il nome della rosa: medesimo il periodo storico assunto a contesto, medesimo il panorama di riferimento (biblioteche, monasteri, eremi), medesimo addirittura l’uso vero o adulterato delle fonti. Saranno anche opere che procedono secondo traiettorie parallele, ma la differenza è vistosa e sta nella maniera in cui rapportarsi con il Medioevo: Eco per stigmatizzarne gli errori, Pomilio per rintracciare i semi di una speranza e vincere la malinconia della Storia, inclusi i fallimenti, le incomprensibili zone grigie che allontano sempre di più la civitas hominum dalla civitas Dei».

Giuseppe Lupo (foto raicultura.it)

Si potrebbe anche dire di più, prendendo spunto da un’imprecisione di Lupo. Non è vero, infatti, che abbiamo lo stesso periodo storico come contesto, perché la parte propriamente “medievale” de “Il quinto evangelio” occupa poco più di un quarto del romanzo (i capitoli dal secondo al nono, ovvero pp. 53-165 della prima edizione, che termina a p. 399). Questo fatto suggerisce di sostenere che il romanzo di Pomilio, per la sua peculiare costruzione e per vari suoi aspetti (la ricerca ossessiva di qualcosa, che può essere un luogo geografico o un libro mitico e/o perduto, la credenza in un “piano” in senso lato che attraversa i secoli, la costruzione di documenti falsi con effetti realissimi sulla Storia, le semiosi illimitate e le derive ermeneutiche per sovrainterpretazione di “segni”, ecc.), potrebbe essere considerato precursore di ben cinque dei sette romanzi di Eco: “Il nome della rosa”, “Il pendolo di Foucault”, “L’isola del giorno prima”, “Baudolino” e “Il cimitero di Praga”. L’idea di estendere il possibile confronto anche al Pendolo di Foucault, peraltro, è già stata avanzata da Luisa Bianchi nel saggio “Il quinto evangelio, un romanzo-enciclopedia”, uscito nel volume a cura di F. Pierangeli e P. Villani, “Le ragioni del romanzo. Mario Pomilio e la vita letteraria a Napoli”, Roma 2015 (si vedano le pp. 231-233 e in particolare la nota 26).

Umberto Eco (1932-2016) (Foto da Wikipedia)

La cosa curiosa, però, è che, scandagliando le opere di Eco uscite dopo il 1975, non vi si trova mai il nome di Pomilio, né tanto meno vi compare alcun cenno al suo romanzo (ma vorrei sbagliarmi). Eppure, per dire, Pomilio è stato un Premio Strega, vinto con “Il Natale del 1833” nel 1983, cioè due anni dopo “Il nome della rosa”. Com’è possibile? È difficile credere che Eco – il quale non poteva non conoscere o se non altro aver sentito nominare questo romanzo – non lo abbia mai nemmeno menzionato di sfuggita in opere destinate alla pubblicazione. Se così fosse, sarebbe un “caso” interessante da analizzare ulteriormente.

Un piccolo colpo di scena, tuttavia, si trova nel già citato “Preistoria di un romanzo”. Qui, a un certo punto, parlando dei propri dubbi sull’opportunità strutturale di concludere il romanzo con un capitolo in forma di testo teatrale che è quasi un’opera a sé, Pomilio usa l’espressione “opera aperta”, che Eco ha reso inseparabile dal proprio nome: «finché non m’accorsi che (…) accadeva un fatto strano: il testo teatrale, riaprendo il discorso e quasi rimescolando da capo le carte, faceva della mia un esempio di opera aperta». E così abbiamo la seguente, stranissima situazione: l’autore del “Nome della rosa” sembra non aver mai riconosciuto alcun debito narrativo nei confronti dell’autore de “Il Quinto evangelio”, mentre quest’ultimo ha fuggevolmente riconosciuto il proprio debito teorico nei confronti dell’autore di “Opera aperta”.

Per concludere, una piccola nota di variantistica. Come accennato, chi legga Il quinto evangelio in una delle edizioni uscite a partire dal 1990 trova una versione profondamente rimaneggiata dell’ultimo capitolo, intitolato “Il quinto evangelista”, dal momento che Pomilio dovette intervenire con delle modifiche già nel 1975 in occasione di una sua messa in scena teatrale. A tal proposito, è illuminante il saggio “Le varianti del Quinto evangelista”, che si può leggere in appendice. Qui Pomilio illustra gli interventi sia strutturali che testuali, e vale la pena vedere cosa dice a proposito di queste ultime:
«più volte dovetti intervenire a ridurre battute o troppo lunghe pei polmoni degli attori, o troppo folte, troppo dense concettualmente per non risultare ingombranti in sede scenica. Un’opera di potatura insomma, con qualche rischio di disseccamento».

Un confronto puntuale con l’ultimo capitolo così come si presentava nella prima edizione consente di entrare nel laboratorio creativo di Pomilio e qui vorrei segnalare un caso che mi pare particolarmente significativo. Tra le pagine 394 e 395 della prima edizione c’è un lungo e importante monologo di Giuda (impersonato dallo studente Toepfer) in cui viene illustrato il senso politico radicalmente eversivo dell’insegnamento di Cristo, al punto che Pilato (impersonato dal capitano nazista Klammer) procederà subito dopo all’arresto del quinto evangelista (uno sconosciuto che, qui, si rivelerà avere “il volto stesso di Gesù”, mentre nella versione successiva e definitiva sarà impersonato dallo studente Herbert Kuyper).

Giuda sostiene che Gesù insegna la rivolta metafisica contro qualsiasi idea di sacralità della Legge e dello Stato, e quindi, a maggior ragione, contro lo “stato etico” hegeliano (subito dopo lo stesso quinto evangelista citerà Hegel per ben due volte) in nome della coscienza “infinitamente libera” dell’individuo che è, in quest’ottica, quanto di più prezioso Dio ci abbia donato.

Friedrich Hegel (1770-1831 – Particolare del ritratto di Jakob Schlesinger – 1831) (Immagine da Wikipedia)

Questo implica, come aveva già letto Peter Bergin nei quaderni del sacerdote di Colonia, che un cristiano tedesco che vive nella Germania nazista, per esempio, non può non aderire alla Resistenza, visto che è già ineluttabilmente un anarcoide sotto qualsiasi forma di governo, anche quella sulla carta più “giusta” secondo il sentire comune. Ed ecco che, a questo punto, Giuda, rivolto al nazista Klammer-Pilato, fa un interessante riferimento al Critone di Platone, al fine di rimarcare l’incolmabile differenza tra Gesù e Socrate:

«[Lei, capitano Klammer,] è anzi, se non m’inganno, talmente compreso della oggettiva bontà delle nostre istituzioni che, se venisse a trovarsi nella condizione di Socrate, accusato ingiustamente, condannato a morte ingiustamente, rifiuterebbe, credo, come lui di fuggire dalla prigione pur di non essere disobbediente a una legge che ha potuto, sì, sbagliare dichiarandolo colpevole, ma che in assoluto lei considera comunque sacra e giusta. Si ricorda di quel che dicevano a Socrate le leggi? (Col tono di chi cita a memoria) “Se noi ti mandiamo a morte nella convinzione che ciò sia giusto, tenterai forse di ribellarti a noi, che siamo le Leggi e la Patria tua, col pretesto che ciò facendo tu rimedi a una cosa ingiusta? Sei tu dunque così sapiente da aver dimenticato che più che il padre e più che la madre è tuo dovere onorare la Patria, perché più di qualsiasi cosa essa è venerabile e sublime e sacra? E che occorre soffrire se ci ordina di soffrire, e lasciarci percuotere se ci vuole percuotere, e andare alla guerra se ci manda alla guerra, e insomma esserle obbedienti finanche nell’ingiustizia, perché questo è il giusto?”».

La morte di Socrate (Jacques-Louis David – 1787)

Ora, Pomilio ha tagliato integralmente questo passo, lasciando praticamente intatto il resto e accorciando così significativamente la battuta di Giuda. Nel farlo, però, ha completamente azzerato la presenza di Socrate, che nel romanzo era citato solo lì. Perché ha eliminato in maniera così netta questa importante digressione filosofico-politica? Avanzerei un’ipotesi. Pomilio dev’essersi accorto che, per ragioni di mera “sintassi” testuale, Socrate si trovava a fungere da precursore di Hegel, citato poco più avanti nell’ambito dello stesso discorso, e quindi del nazismo (si pensi a una linea genealogica come quella proposta da Karl Popper ne “La società aperta e i suoi nemici”, la cui prima edizione italiana risale proprio a quegli anni, 1973-1974). E questo, probabilmente, a Pomilio è sembrato troppo: va bene per un cristiano postulare la distanza abissale tra Socrate e Cristo, ma se questo comporta contestualmente anche un’assimilazione di Socrate al cittadino nazista ideale, allora forse nell’ardita similitudine c’è qualcosa che non funziona.

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