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di Nunzio Spina

“Dobbiamo fare qualcosa!”. Quelle semplici parole, buttate là in un impeto di altruismo – quasi contro ogni ragionevole aspettativa – divennero il dogma, il principio ispiratore del suo impegno professionale. La prima volta che gliele sentirono pronunciare senza che si perdessero nel vuoto, lui – Antonio Maglio, consulente neuropsichiatra dell’INAIL – aveva 40 anni, e il suo approccio al mondo della disabilità si scontrava ancora con un muro di impotenza e di pregiudizi.

Era la metà degli anni Cinquanta. Quel giorno, un collega più anziano gli aveva chiesto di accompagnarlo da Roma a Palestrina per visitare due giovani che, in stato di totale inerzia, vivevano abbandonati in una casa di cura. La diagnosi di Maglio risuonò come una cruda sentenza: “Hanno una lesione del midollo, questi non cammineranno mai più!”; ma quel che aggiunse subito dopo faceva sentire, più forte, i toni della sua ribellione: “E adesso che facciamo? Li lasciamo così per sempre? Dobbiamo fare qualcosa!”.

Il dott. Antonio Maglio (1912 – 1988)

Fece tanto, il dottor Maglio! Il sentimento scatenato da quell’episodio fu sicuramente la goccia che fece traboccare un vaso già colmo di buoni propositi. Da allora, si dedicò esclusivamente alla cura di paraplegici e mielolesi, e col tempo riuscì a promuovere in Italia – in un angolo della medicina rimasto oscuro e volutamente ignorato – una vera e propria rivoluzione scientifica e culturale.

Il recupero fisico, mantenendo e incrementando le forze dei distretti rimasti integri, era il primo obiettivo da raggiungere; che però rischiava di restare improduttivo senza un concomitante recupero psicologico, così da non cadere preda della depressione. Il pieno reinserimento nella società, anche da un punto di vista lavorativo, doveva essere il traguardo finale del percorso riabilitativo. Nei confronti di questi pazienti, quindi, non più pietà, ma comprensione; non più rifiuto, ma rispetto e apprezzamento.

Lo strumento di cui maggiormente si servì per portare a termine il suo ambizioso progetto fu lo sport. Già, lo sport come terapia! Se a un individuo costretto in carrozzina – pensò – mettiamo in mano un peso o un giavellotto da lanciare più in là possibile, una racchetta per colpire una pallina da ping-pong, un pallone per centrare un canestro posto in alto, altro non facciamo che sviluppare le sue capacità motorie residue, la sua coordinazione, i suoi riflessi; e lo facciamo sfruttando i vantaggi di una attività ludica, che ha sicuramente una resa maggiore rispetto alle noiose sedute di fisioterapia nel chiuso di una palestra.

Stesso discorso per altre discipline nelle quali può essere impiegata solo la muscolatura della metà superiore del corpo, come il nuoto, il tiro con l’arco, la scherma, la corsa in carrozzina spingendo con le mani sulle ruote. In più, volle aggiungere la componente agonistica, quello spirito competitivo che – se ben gestito – fa aumentare le motivazioni del paziente.

In realtà, Maglio aveva avuto un preciso modello a cui ispirarsi. Si chiamava Ludwig Guttmann, un personaggio al quale oltreimuri.blog ha già dedicato un ritratto. Neurologo di nazionalità tedesca, a causa delle sue origini ebree era stato costretto ad espatriare in Inghilterra, e qui aveva creato il suo capolavoro nel campo assistenziale: un ospedale esclusivamente dedicato alla cura dei militari che nel corso della Seconda guerra mondiale – appena conclusa – avevano riportato lesioni irreparabili del midollo spinale. Lo sport come terapia era stato lui il primo a introdurlo, tanto che Stoke Mandeville, la piccola località nei pressi di Londra dove era sorto lo stabilimento, era in breve diventato il centro europeo, e poi mondiale, di competizioni agonistiche riservate a questo genere di malati.

Il dott. Guttmann e una partita di basket giocata nel cortile dello Stoke Mandeville Hospital

Quando nel 1957 Maglio intravide la possibilità di trasferire in Italia il modello-Guttmann, riuscì a convincere i vertici dell’INAIL ad acquistare sul litorale romano un ex ospedale ostetrico, da trasformare in un centro di riabilitazione per paraplegici. Nasceva così la bella favola di “Villa Marina” a Ostia. Le ferite di guerra erano ormai un triste ricordo; adesso c’erano i civili da curare, vittime del lavoro soprattutto, in un’epoca di ricostruzione post-bellica e industrializzazione; e anche gli incidenti stradali cominciavano a dare il loro contributo.

“Dobbiamo fare qualcosa!” continuava a ripetere a sé stesso e ai suoi collaboratori, ogni volta che le porte dello stabilimento si aprivano all’ingresso di un nuovo ospite. E anche sul paziente faceva sentire il peso di questo dovere. Se era il caso, lo affrontava a muso duro, gli sparava in faccia l’amara realtà della sua condizione irreversibile; lo faceva per non illuderlo, per esortarlo a impegnarsi al massimo delle sue possibilità, perché si poteva non tornare a camminare, ma ad avere il piacere di vivere sì. Magari grazie allo sport.

La partecipazione ai “Giochi di Stoke Mandeville”, che dal 1948 Guttmann organizzava nella grande area del suo ospedale, cominciò a far nascere nella mente di Antonio Maglio un grande sogno: le Olimpiadi per paraplegici! Già nel 1956, prima ancora che “Villa Marina” venisse inaugurata (con 100 letti e 38 pazienti), aveva fatto esordire una delegazione italiana a quella manifestazione, portando una squadra di fioretto.

Poi era stata la volta del basket (sport che lui prediligeva tra quelli di squadra) e via via di altre discipline. Quell’idea che gli frullava in testa si materializzò, a un certo punto, in una proposta concreta, sussurrata alle orecchie di Guttmann: trasferire per un anno i “Giochi” a Roma, nel settembre del 1960, per farli disputare a ridosso del più grande evento sportivo mondiale, le Olimpiadi!

La paralimpiadi di Roma del 1960

Progetto ambizioso al limite dell’impossibile. Ma Antonio Maglio sapeva come affrontare le sfide difficili e come trasformare in opportunità gli ostacoli che la vita gli poneva davanti. Nato nel 1912 al Cairo, in Egitto, dove papà svolgeva un incarico diplomatico alla corte del re Fuad, aveva là vissuto fino all’età di 17 anni, prima del rientro in Italia della famiglia; nel bagaglio che si era portato dietro, c’era anche la conoscenza – in qualche modo obbligata – di inglese, tedesco e arabo. Laureatosi in medicina a Bari, città di origine della mamma, arrivò subito l’assunzione all’INAIL, e la cosmopolita Trieste fu la sua prima sede di lavoro.

Era il 1938, Mussolini si accingeva ad annunciare, proprio nel capoluogo giuliano, l’emanazione delle leggi razziali, mentre si avvicinavano minacciose le nubi della seconda guerra mondiale, che lo avrebbe costretto ad accorrere sul fronte della vicina penisola balcanica, col grado di tenente medico; i primi motulesi che avevano sconvolto il suo animo – privati di un arto o dell’uso delle gambe – li aveva visti là. Quando si mise in testa di affiancare alle Olimpiadi di Roma una manifestazione sportiva mondiale per disabili, aveva già dovuto superare anche il dramma per la perdita prematura di una sorella e di un figlio, colpito a 6 anni da una meningite fulminante.

Il 18 settembre del 1960, una settimana dopo la conclusione trionfale delle prime Olimpiadi disputate in Italia, il sogno di Antonio Maglio divenne realtà. Negli impianti sportivi romani dell’Acqua Acetosa, 377 atleti paraplegici sfilarono sulla loro carrozzella per la cerimonia d’apertura. Erano là in rappresentanza di 21 paesi, compresi gli Stati Uniti, l’Argentina, l’Australia, la Rhodesia del Sud. A ricambiare il loro saluto e il loro sorriso, più di cinquemila spettatori. In fatto di partecipazione e di risonanza, si era trattato di un autentico exploit. L’etichetta era ancora quella, “Giochi Internazionali di Stoke Mandeville per paralizzati – IX edizione”; la storia li avrebbe poi celebrati come le prime “Paralimpiadi”.

Oltre che ingegnoso organizzatore, Maglio si dimostrò anche abile direttore tecnico, riuscendo ad allestire una delegazione italiana in grado di primeggiare in tutti i sensi: come numero di iscritti, innanzitutto, e poi come bottino di medaglie (80 complessivamente; solo 55 la seconda classificata Gran Bretagna, 30 la Germania Ovest). 

Fieri della scritta “INAIL” stampata a grandi lettere sulle tute (e sulle carrozzine), i nostri atleti si distinsero in tutte le discipline in programma (atletica leggera, biliardo, nuoto, pallacanestro, scherma, tennistavolo, tiro con l’arco, tiro del dardo), conquistando 29 medaglie d’oro, 28 d’argento e 23 di bronzo. Al di là dei successi sul campo, comunque, l’Italia aveva offerto al mondo intero – in sei giorni di gare – l’immagine di una nazione all’avanguardia, di un “Bel Paese” che sapeva anche dare valore allo sport come mezzo di riabilitazione. Sir Ludwig Guttmann, ospite d’onore in quella circostanza, non poté fare a meno di sprecarsi in complimenti nei confronti dell’amico fautore.

Antonio Maglio insieme a Ludwig Guttmann

Aveva precorso i tempi, Maglio, e non di poco. Bisognò attendere il 1984, infatti, prima che il Comitato Olimpico Internazionale approvasse la denominazione “Giochi paralimpici”; e solo quattro anni dopo, a partire da Seul 1988, si cominciò ad affermare il principio di far disputare le Paralimpiadi nella medesima città sede delle Olimpiadi; dopo quelle estive, anche quelle invernali seguirono questo rituale. “Para” nel senso di “parallele”, proprio come il dott. Antonio Maglio le aveva immaginate nei suoi sogni e li aveva poi create, animato dal suo dogma incrollabile: “Fare qualcosa!”.

La Rai ha in prossima programmazione un film tv dal titolo “A muso duro” dedicata alla storia di Antonio Maglio, personaggio interpretato da Flavio Insinna.

Flavio Insinna nei panni del dott. Antonio Maglio (Immagine da zerkalospettacolo.com)

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