di Giuseppe Cultrera
Chiaramonte 1854. A qualche centinaio di metri in linea d’aria ad est di contrada Paraspola, si estende la contrada Buzzolera fin dall’antichità intensamente coltivata. Qui sorge la chiesetta campestre di Sant’Elia e una sorgente d’acqua. Poco più in alto della sorgente e della chiesa, per una trazzera a questa tangente, si arriva al caseggiato del fu canonico Salvatore Ventura.

E’ la notte del 5 febbraio 1854 e nella casa del canonico attorno al focolare stanno il mezzadro Vito Pepi di anni 42, il figlio Paolo dodicenne e il garzone Mariano Sinatra, poco più grande. Fuori nevica.
Bussano alla porta e il Pepi va; accertatosi dalla voce che è persona conosciuta, apre. Quando si accorge di essere stato ingannato non fa in tempo a ritrarsi: una coltellata dietro l’altra lo inchiodano al suolo in un lago di sangue.

Tre uomini irrompono nella stanza (un quarto, Francesco Amato, quello che si era fatto riconoscere, resta fuori a controllare la situazione) e senza esitazione finiscono il garzone. Il figlio di Pepi terrorizzato implora pietà. Gli assassini sembrano insensibili, come in trance: uccidono anche costui e lo gettano nel fuoco, poi aggiungono i corpi degli altri due sventurati.
Ora si avviano verso la cappella, vanno verso l’altare e cominciano a scavare. Cercano l’oro, il tesoro, perché una storia popolare parla di un tesoro nascosto qui. E loro che ci credono, lo cercano.
Inconsciamente stanno ottemperando alla prima condizione per spignare (aprire) una trovatura: il sacrificio di un essere umano. Adesso bisognava saper cercare.

“Ficiru ni l’artari na furnera.
Ni li mobili ficiru apertura.
Nenti truvaru pi la so svintura
Ni ‘dda nuttata friddusa e scura.
Scavarono dentro l’altare,
ruppero tutta la mobilia.
Ma nulla trovano, per loro sventura,
in quella notte fredda e scura.”

La notizia dell’eccidio giunge in città e desta grande commozione e sdegno. I responsabili, in breve tempo, tutti e quattro vengono assicurati alla giustizia; a due, Mariano Ferrante detto Ciresi e Michele Distefano, artefici dei delitti, fu inflitta la pena capitale, ad Antonio Mosca e Francesco Amato, come complici, la condanna del carcere a vita. L’impiccagione dei due rei avvenne l’anno successivo.
Ci racconta il tutto, in versi vernacolari, il poeta popolare Luciano Iannizzotto (Chiaramonte 1819 – 1884) nel poemetto L’assassiniu a la Vuzzulera.
Ma è cronaca. Cronaca nera di un secolo e mezzo fa.