di Paolo Giusti
Il 1948 è un anno di svolta per la Ghia di Torino. Mario Felice Boano è diventato l’unico titolare dell’azienda dopo aver liquidato Giorgio Alberti, il genero di Giacinto Ghia che sul letto di morte gli aveva promesso di rilevare l’azienda insieme a Boano. Insieme avevano ricostruito a fatica il capannone in via Tommaso Grossi, bombardato dagli americani nell’estate del 1944, ed insieme avevano condiviso le problematiche comuni a tutti i carrozzieri del dopoguerra: pochi clienti facoltosi e pochi telai sui quali costruire pezzi unici. Scarseggiavano i pneumatici, figurarsi i telai. Ma con la prima rata dell’ERP (European Recovery Program) l’industria italiana iniziò a tirare un sospiro di sollievo ed assieme ai prestiti arrivarono anche le materie prime: gomma, olio lubrificante, carbone e di conseguenza acciaio.

Boano però doveva ancora mettere in carreggiata l’azienda, oltre alla scarsità di clienti aveva perso per strada Umberto Capalbi e il suo designer di punta: Fedele Bianco, che era andato alla Pinin Farina e da solo non aveva idee sufficientemente attrattive. Il principe dei designer torinesi, Mario Revelli di Beaumont, che prima della guerra aveva creato dei capolavori per la Ghia, era diventato troppo caro per poterselo permettere. La data di apertura del Salone di Torino, il primo del dopoguerra, si avvicinava, ma nuovi progetti nel cassetto non ce n’erano.

Una mattina però squillò il telefono: all’altro capo del cavo c’era Guido Filippi, avvocato d’affari, che oltre allo studio legale curava anche gli investimenti di famiglia, una dinastia che affondava le radici nella storia dell’industria torinese. Il fratello di Guido infatti dirigeva il Saponificio Filippi di Rivoli, leader del mercato italiano. I Filippi, grazie all’intraprendenza del loro direttore commerciale Monnier, cittadino italo-svizzero, approfittarono del suo doppio passaporto per aprire ad Aigle una società di importazione del sego e dalla Svizzera, paese neutrale, lo importavano in esclusiva.

Dopo 12 anni avevano accumulato un enorme capitale in Franchi svizzeri ed una parte di questi andavano spesi in territorio elvetico. Ebbene, la vicinanza con Ginevra, dove si teneva il più importante salone europeo dell’automobile e la presenza in paese della stazione ferroviaria, facevano di Aigle un luogo strategico dove aprire una carrozzeria, oltre al fatto che Monnier aveva in paese sia una casa che l’ufficio. Filippi in buona sostanza non voleva creare un marchio ex-novo, perché non aveva il tempo necessario per farlo conoscere nel mondo dell’auto, già saturo di nomi che avevano avuto breve vita, voleva invece utilizzare il marchio Ghia perché era considerato ancora sinonimo di eleganza e di successo. E per fare ciò avrebbe pagato profumate royalties a Boano senza entrare in concorrenza diretta perché le vetture Ghia-Aigle non sarebbero state importate in Italia.

Boano accettò ed insieme firmarono un contratto quadriennale. Al Salone di Torino la Ghia si presentò con due eleganti vetture a ruote coperte disegnate da Capalbi, già vendute, e tre Fiat dalle linee abbastanza convenzionali, ma ben verniciate e sellate come nella tradizione della casa. Il primo salone torinese del dopoguerra portò una ventata di novità sia nelle linee che nelle proposte tanto che gli spazi risultarono persino insufficienti per esporre tutti veicoli, soprattutto gli autobus che furono i veri protagonisti del rilancio italiano nel mondo dei trasporti.

L’ANFIAA aveva già deciso di ingrandire gli spazi fieristici e nel 1949 il salone non si sarebbe tenuto a causa dei lavori di ristrutturazione. Tuttavia fra gli operatori non passò inosservata la presenza anonima di un giovane disegnatore che aveva appena concluso il suo contratto presso gli Stabilimenti Farina: Giovanni Michelotti. Michelotti, senza che lo si sapesse ufficialmente, aveva disegnato oltre 30 delle vetture esposte al Salone non solo per gli Stabilimenti Farina, ma anche per Allemano, Balbo, Bertone, Coriasco, Monterosa e Vignale. Tutti i suoi modelli avevano caratteristiche e linee diverse, che da sole interpretavano pienamente lo stile di ogni marchio. Inoltre pareva che Michelotti non fosse esoso nei prezzi e che lavorasse come freelance in casa sua o presso le officine a seconda delle necessità.

Boano colse dunque la palla al balzo e gli commissionò alcuni figurini basati sui telai più richiesti al momento dal mercato: Fiat 1100, Fiat 1500 e Lancia Aprilia. Ma Boano deficitava ancora nella sua rete di vendita: non bastavano più l’agenzia Savoia come esclusivista per il Piemonte o i F.lli Bornigia a Roma per vendere le auto, ci voleva una struttura più grande.
Ancora una volta sarà provvidenziale una telefonata: stavolta a chiamare fu Vittorino Viotti, titolare dell’omonima carrozzeria e vecchio amico di Boano. Viotti voleva che l’amico condividesse il nuovo direttore commerciale, una persona molto intraprendente e capace, che parlava anche Inglese e che aveva molti contatti sia a Torino che fuori, ma che purtroppo gli costava caro: Luigi Segre.

Segre è un personaggio sopra le righe per il mondo austero torinese, durante la guerra era stato prima ufficiale di Fanteria e poi partigiano, dicono guidasse i lanci dei rifornimenti americani in Val di Susa insieme a Renato Ambrosini, figlio del titolare della SIATA. In realtà erano entrambi agenti dell’OSS (Office of Strategic Services), il servizio segreto militare americano. Con Ambrosini aveva lavorato per un paio d’anni ed era stato il protagonista del lancio del micromotore Cucciolo quando insieme all’amico Gino Valenzano erano andati da Torino in Svizzera su due biciclette equipaggiate col nuovo motore.

L’impresa fu documentata da numerosi giornali e le richieste furono così tante che la SIATA dovette trovare un partner per soddisfare tutti gli ordinativi. Sempre con Valenzano, Segre aveva corso alla Targa Florio ed alla Mille Miglia con buoni piazzamenti e quell’anno nella Coppa d’oro delle Dolomiti erano arrivati primi della categoria con una Fiat 1100 cabriolet della Monviso. E grazie ai risultati sportivi la cabriolet Monviso era molto richiesta. Insomma Segre pareva l’uomo giusto per tutte le occasioni, Boano quindi lo assunse part-time. Segre quindi alzò subito l’asticella, trasformando la serie Gioiello, già in produzione, in Supergioiello. In pratica si trattava di una nuova linea di vetture di alta gamma, con un buon margine di guadagno rispetto all’investimento, dotate di raffinati dettagli tecnici, colori speciali e sellerie particolarmente eleganti. E non ce n’erano due uguali.

Presentata al salone di Ginevra del 1949, la serie Supergioiello riscosse sin da subito un buon successo: partecipò al Concorso di Eleganza di Torino e vinse numerosi premi a quelli di Viareggio, di Firenze e di Nervi. Segre dunque passò all’incasso e chiese subito un aumento di stipendio. Nello stesso anno, sempre in coppia con Valenzano, arrivò primo nella categoria 1100 alla Mille miglia. Il giro delle corse era per lui un ambiente dove stringere amicizie e fare affari. Era membro, oltre che uno dei primi soci fondatori, del Racing club 19 di Torino, la scuderia che annoverava nel suo elenco dei soci tutto il gotha del volante torinese.
Oltre al presidente Giorgio Giusti (Testadoro), c’erano i fratelli Valenzano, Adolfo Macchieraldo e Carlo Scagliarini, Ferdinando Gatta (Fergat), Gianni Lancia, Nuccio Bertone, Marino Brandoli ed Aldo Fontanella, Nino Farina, Salvatore Ammendola, Rocco Motto e Giovanni Moretti, Ermanno Gurgo Salice (Rumianca) ed Enrico Giletti, Renato Ambrosini (SIATA) e Renato Danese, Emilio Christillin e molti altri ancora.

Il 1949 poi è un anno d’oro per la Ghia, d’oro come la coppa vinta al Concorso di eleganza di Villa d’Este con una berlina Alfa Romeo 6C2500 disegnata da Michelotti. Finalmente arrivarono le commesse, tutti i giornali, in Italia e all’estero, parlavano del rinnovato successo dello stile torinese e del prestigio del marchio Ghia. Con il lancio del nuovo modello Fiat 1400, al Salone di Torino del 1950 la Ghia propose su questo telaio un coupè a tre posti della serie Supergioiello.

Si trattava di un tipico coupè Granturismo a due volumi di scuola italiana, con un ampio volume interno capace di contenere i bagagli nella zona posteriore. Il cambio è al volante così che il divano anteriore risulti comodo, ma a richiesta si possono ottenere anche dei posti posteriori. La vettura passò praticamente inosservata nella marea di novità del Salone di quell’anno, ma al Concorso di eleganza di Torino Gino Bartali, fresco delle vittorie alla Milano-Sanremo ed al Giro di Toscana, venne per ritirare un esemplare blu scuro, ricco di eleganti cromature. Un terzo esemplare fu presentato alla Fiera del Levante, mentre un quarto vinse il premio d’onore al Concorso di eleganza di Venezia.

Sempre nel 1950 la Lancia chiese alla Ghia di progettare un coupè Granturismo equipaggiato col nuovo motore due litri. Le specifiche erano piuttosto vaghe, si trattava comunque di una vettura a tre posti con molte parti in comune alla berlina di serie: tutta la fanaleria, il parabrezza ed il lunotto, la strumentazione ed il cruscotto, il cambio al volante, i paraurti. Boano aveva già in casa una vettura con quelle caratteristiche: la Fiat 1400 Supergioiello. Il pianale Lancia aveva inoltre delle dimensioni vicine a quello della 1400: il passo era di 2.660 cm contro i 2.650 della Fiat, mentre la carreggiata era di 1.540 cm contro i 1.326 della Fiat. Dunque la B20 avrebbe avuto anche un’abitabilità maggiore ed un volume del baule maggiormente sfruttabile. Michelotti quindi, anche per via dei tempi ristretti, pensò di ristilizzare la Fiat 1400 Supergioiello eliminandone anche qualche difetto di gioventù, come il parabrezza separato in due parti ed il padiglione troppo accentuato sul davanti.

Ne risultò una vettura con linee più equilibrate, con un carattere sportivo più definito, soprattutto nella parte anteriore grazie alla doppia fanaleria e fortemente caratterizzata dalla calandra inclinata con la forma del classico scudetto Lancia. L’esemplare di pre-serie, verniciato in uno dei colori di serie della berlina Aurelia, fu fotografato allo Sporting club di Torino poche settimane prima del Salone dell’auto. Al Salone la Lancia posizionò il nuovo modello al centro dello stand e due esemplari di differenti colori si alternarono durante le quindici giornate dell’evento. Per non creare equivoci con la Lancia, Boano introdusse al Salone un modello aggiornato di Fiat 1400 Supergioiello con una calandra insolitamente originale, più cromature e livrea bicolore.

L’Aurelia 2000 Granturismo riscosse subito grandi favori del pubblico e numerosi ordini. Probabilmente né la Lancia né Boano si aspettavano un simile riscontro per una vettura di serie a tre posti dal prezzo di listino di 2.600.000 lire, ovvero il 25% in più della berlina di serie. Il cospicuo numero di ordini infatti creò sin da subito una lunga serie di problemi. Nel 1951 la Ghia era una carrozzeria medio-piccola, con meno di 30 dipendenti, disponeva di spazi coperti in grado di contenere 10-12 vetture alla volta, non aveva le presse, si verniciava ancora con la pistola e si essiccavano le scocche sotto alle lampade. Dunque non erano attrezzati per una produzione di serie, seppur piccola.

Boano quindi corse ai ripari e chiese aiuto all’amico Vittorino Viotti che disponeva di spazi più ampi, di attrezzature più moderne e di maggiore manodopera. Viotti inoltre forniva alla Lancia anche l’Aurelia giardinetta costruita sul telaio B50. Il sub-appalto consisteva nella costruzione e nella verniciatura della scocca. Questo avrebbe consentito alla Ghia di occuparsi dell’assemblaggio della componentistica e della finizione. Nella realtà dei fatti nemmeno questo sforzo fu risolutivo perché alla Ghia non riuscivano a finire tante scocche quante ne assemblavano da Viotti e quindi la Lancia finì per coinvolgere nell’appalto anche la Pinin Farina, che già costruiva su licenza la versione cabriolet sul telaio B50 (cabriolet aggiornato a partire dal Settembre 1951 con il nuovo motore due litri).

Essendo stata contattata per ultima, la Pinin Farina accolse il progetto già definitivo e si limitò in questa prima fase emergenziale ad integrare la produzione eseguita dalla Viotti, con la differenza che tutta la costruzione e l’assemblaggio venivano eseguiti all’interno delle officine di corso Trapani. Proprio per questo motivo, solo un occhio esperto può notare le differenze tra una scocca costruita presso la Viotti ed una presso la Pinin Farina. Si tratta infatti di differenze non visibili esternamente perché si trovano all’interno dei lamierati: sono elementi di rinforzo, traverse strutturali, scatolati, etc. dovute ai differenti metodi di lavorazione.

Sono dunque queste differenze strutturali a caratterizzare le due tipologie di scocca e non i numeri di serie. Sappiamo infatti che la Ghia, supportata dalla Viotti, consegnò alla Lancia 98 esemplari in tutto, ma non si trattava degli esemplari numerati dal 1001 al 1099, bensì di esemplari che avevano numerazioni non consecutive poiché nè la Ghia, nè Viotti disponevano di spazi sufficienti per stoccare i pianali nelle rispettive aziende e dunque le consegne avvenivano in piccoli lotti direttamente dalla fabbrica.
Quando subentrò anche la Pinin Farina successe la stessa cosa, pur avendo questa azienda cortili più capienti. Conclusa la commessa Ghia-Viotti, la Pinin Farina completò la produzione della I serie con buona pace dei concessionari Lancia. Circa 300 esemplari furono venduti entro Natale del 1951, a meno di sette mesi dal lancio ed in tutto furono costruiti 500 esemplari.
Nel Febbraio del 1952 fu questa azienda a ricevere tutti gli ordinativi dalla Lancia e grazie ad una programmazione più concreta, si dotò anche di macchinari adatti alla produzione di serie, quali nuove saldatrici a punti ed un curioso sistema a binario, soprannominato la “giostrina” che spostava su dei carrellini le scocche dentro la cabina di verniciatura e da questa nel forno di essiccazione. Fu il primo impianto di questo tipo installato a Torino e fu fornito dalla locale ditta Emanuel, già nota produttrice di ponti sollevatori.

I 731 esemplari della II serie furono ristilizzati sia esternamente che internamente e poiché la fornitura era in esclusiva, la Pinin Farina ottenne dalla casa madre di poter produrre su richiesta dei clienti anche dei modelli “speciali”, in sostanza più lussuosi e marchiati Pinin Farina, da vendere attraverso la propria rete commerciale.

© Paolo Giusti, automotive historian, 2023
Paolo Giusti (1964), torinese, si occupa di storia dell’automobile a livello professionale dal 2008. Dopo essere stato consulente storico del reparto restauri e progetti speciali della Pininfarina, ha collaborato con il Louwman museum di Den Haag e con l’ADAC di Munich. Da alcuni anni collabora con il MAUTO di Torino. Ha catalogato gli archivi dei Designer Frua, Michelotti, Revelli di Beaumont e Sartorelli, oltre a quelli dei fotografi Bellia, Bertazzini, Bricarelli e Moncalvo. Ha al suo attivo varie pubblicazioni, articoli e revisione di testi, oltre che a numerose monografie riguardanti le vetture che hanno partecipato a vari concorsi di eleganza sia in Italia che all’estero. Questo articolo nasce dallo studio dei documenti ritrovati nell’ufficio di Luigi Segre e nell’archivio Ghia-Aigle.