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di Paolo Giusti

Il 1948 è un anno di svolta per la Ghia di Torino. Mario Felice Boano è diventato l’unico titolare dell’azienda dopo aver liquidato Giorgio Alberti, il genero di Giacinto Ghia che sul letto di morte gli aveva promesso di rilevare l’azienda insieme a Boano. Insieme avevano ricostruito a fatica il capannone in via Tommaso Grossi, bombardato dagli americani nell’estate del 1944, ed insieme avevano condiviso le problematiche comuni a tutti i carrozzieri del dopoguerra: pochi clienti facoltosi e pochi telai sui quali costruire pezzi unici. Scarseggiavano i pneumatici, figurarsi i telai. Ma con la prima rata dell’ERP (European Recovery Program) l’industria italiana iniziò a tirare un sospiro di sollievo ed assieme ai prestiti arrivarono anche le materie prime: gomma, olio lubrificante, carbone e di conseguenza acciaio.

Giorgio Alberti, genero di Giacinto Ghia

Boano però doveva ancora mettere in carreggiata l’azienda, oltre alla scarsità di clienti aveva perso per strada Umberto Capalbi e il suo designer di punta: Fedele Bianco, che era andato alla Pinin Farina e da solo non aveva idee sufficientemente attrattive. Il principe dei designer torinesi, Mario Revelli di Beaumont, che prima della guerra aveva creato dei capolavori per la Ghia, era diventato troppo caro per poterselo permettere. La data di apertura del Salone di Torino, il primo del dopoguerra, si avvicinava, ma nuovi progetti nel cassetto non ce n’erano.

Felice Mario Boano (1903-1989)

Una mattina però squillò il telefono: all’altro capo del cavo c’era Guido Filippi, avvocato d’affari, che oltre allo studio legale curava anche gli investimenti di famiglia, una dinastia che affondava le radici nella storia dell’industria torinese. Il fratello di Guido infatti dirigeva il Saponificio Filippi di Rivoli, leader del mercato italiano. I Filippi, grazie all’intraprendenza del loro direttore commerciale Monnier, cittadino italo-svizzero, approfittarono del suo doppio passaporto per aprire ad Aigle una società di importazione del sego e dalla Svizzera, paese neutrale, lo importavano in esclusiva.

Veduta di Aigle in Svizzera, sede della Ghia-Aigle

Dopo 12 anni avevano accumulato un enorme capitale in Franchi svizzeri ed una parte di questi andavano spesi in territorio elvetico. Ebbene, la vicinanza con Ginevra, dove si teneva il più importante salone europeo dell’automobile e la presenza in paese della stazione ferroviaria, facevano di Aigle un luogo strategico dove aprire una carrozzeria, oltre al fatto che Monnier aveva in paese sia una casa che l’ufficio. Filippi in buona sostanza non voleva creare un marchio ex-novo, perché non aveva il tempo necessario per farlo conoscere nel mondo dell’auto, già saturo di nomi che avevano avuto breve vita, voleva invece utilizzare il marchio Ghia perché era considerato ancora sinonimo di eleganza e di successo. E per fare ciò avrebbe pagato profumate royalties a Boano senza entrare in concorrenza diretta perché le vetture Ghia-Aigle non sarebbero state importate in Italia.

Un’Alfa Romeo 1900C SS Ghia-Aigle Cabriolet del 1955, costruita in Svizzera

Boano accettò ed insieme firmarono un contratto quadriennale. Al Salone di Torino la Ghia si presentò con due eleganti vetture a ruote coperte disegnate da Capalbi, già vendute, e tre Fiat dalle linee abbastanza convenzionali, ma ben verniciate e sellate come nella tradizione della casa. Il primo salone torinese del dopoguerra portò una ventata di novità sia nelle linee che nelle proposte tanto che gli spazi risultarono persino insufficienti per esporre tutti veicoli, soprattutto gli autobus che furono i veri protagonisti del rilancio italiano nel mondo dei trasporti.

Un’immagine del Salone di Torino del 1948

L’ANFIAA aveva già deciso di ingrandire gli spazi fieristici e nel 1949 il salone non si sarebbe tenuto a causa dei lavori di ristrutturazione. Tuttavia fra gli operatori non passò inosservata la presenza anonima di un giovane disegnatore che aveva appena concluso il suo contratto presso gli Stabilimenti Farina: Giovanni Michelotti. Michelotti, senza che lo si sapesse ufficialmente, aveva disegnato oltre 30 delle vetture esposte al Salone non solo per gli Stabilimenti Farina, ma anche per Allemano, Balbo, Bertone, Coriasco, Monterosa e Vignale. Tutti i suoi modelli avevano caratteristiche e linee diverse, che da sole interpretavano pienamente lo stile di ogni marchio. Inoltre pareva che Michelotti non fosse esoso nei prezzi e che lavorasse come freelance in casa sua o presso le officine a seconda delle necessità.

1960. (A destra) il giovane designer Giovanni Michelotti (1921-1980) insieme ad Enrico Nardi (1907-1966)

Boano colse dunque la palla al balzo e gli commissionò alcuni figurini basati sui telai più richiesti al momento dal mercato: Fiat 1100, Fiat 1500 e Lancia Aprilia. Ma Boano deficitava ancora nella sua rete di vendita: non bastavano più l’agenzia Savoia come esclusivista per il Piemonte o i F.lli Bornigia a Roma per vendere le auto, ci voleva una struttura più grande.
Ancora una volta sarà provvidenziale una telefonata: stavolta a chiamare fu Vittorino Viotti, titolare dell’omonima carrozzeria e vecchio amico di Boano. Viotti voleva che l’amico condividesse il nuovo direttore commerciale, una persona molto intraprendente e capace, che parlava anche Inglese e che aveva molti contatti sia a Torino che fuori, ma che purtroppo gli costava caro: Luigi Segre.

(Da sinistra) Vittorino Viotti (1900-1956) e Luigi Segre (1919-1963)

Segre è un personaggio sopra le righe per il mondo austero torinese, durante la guerra era stato prima ufficiale di Fanteria e poi partigiano, dicono guidasse i lanci dei rifornimenti americani in Val di Susa insieme a Renato Ambrosini, figlio del titolare della SIATA. In realtà erano entrambi agenti dell’OSS (Office of Strategic Services), il servizio segreto militare americano. Con Ambrosini aveva lavorato per un paio d’anni ed era stato il protagonista del lancio del micromotore Cucciolo quando insieme all’amico Gino Valenzano erano andati da Torino in Svizzera su due biciclette equipaggiate col nuovo motore.

Volantino pubblicitario del micromotore “Cucciolo” per motorizzare le biciclette..

L’impresa fu documentata da numerosi giornali e le richieste furono così tante che la SIATA dovette trovare un partner per soddisfare tutti gli ordinativi. Sempre con Valenzano, Segre aveva corso alla Targa Florio ed alla Mille Miglia con buoni piazzamenti e quell’anno nella Coppa d’oro delle Dolomiti erano arrivati primi della categoria con una Fiat 1100 cabriolet della Monviso. E grazie ai risultati sportivi la cabriolet Monviso era molto richiesta. Insomma Segre pareva l’uomo giusto per tutte le occasioni, Boano quindi lo assunse part-time. Segre quindi alzò subito l’asticella, trasformando la serie Gioiello, già in produzione, in Supergioiello. In pratica si trattava di una nuova linea di vetture di alta gamma, con un buon margine di guadagno rispetto all’investimento, dotate di raffinati dettagli tecnici, colori speciali e sellerie particolarmente eleganti. E non ce n’erano due uguali.

1950. Figurino Fiat 1400 Supergioiello di Giovanni Michelotti

Presentata al salone di Ginevra del 1949, la serie Supergioiello riscosse sin da subito un buon successo: partecipò al Concorso di Eleganza di Torino e vinse numerosi premi a quelli di Viareggio, di Firenze e di Nervi. Segre dunque passò all’incasso e chiese subito un aumento di stipendio. Nello stesso anno, sempre in coppia con Valenzano, arrivò primo nella categoria 1100 alla Mille miglia. Il giro delle corse era per lui un ambiente dove stringere amicizie e fare affari. Era membro, oltre che uno dei primi soci fondatori, del Racing club 19 di Torino, la scuderia che annoverava nel suo elenco dei soci tutto il gotha del volante torinese.

Oltre al presidente Giorgio Giusti (Testadoro), c’erano i fratelli Valenzano, Adolfo Macchieraldo e Carlo Scagliarini, Ferdinando Gatta (Fergat), Gianni Lancia, Nuccio Bertone, Marino Brandoli ed Aldo Fontanella, Nino Farina, Salvatore Ammendola, Rocco Motto e Giovanni Moretti, Ermanno Gurgo Salice (Rumianca) ed Enrico Giletti, Renato Ambrosini (SIATA) e Renato Danese, Emilio Christillin e molti altri ancora.

(Sopra) la Fiat 1400 Supergioiello. (Sotto) La 1400 Supergioiello presentata al Concorso di eleganza di Venezia del 1950. (Archivio Stefano Bricarelli-Motor Italia)

Il 1949 poi è un anno d’oro per la Ghia, d’oro come la coppa vinta al Concorso di eleganza di Villa d’Este con una berlina Alfa Romeo 6C2500 disegnata da Michelotti. Finalmente arrivarono le commesse, tutti i giornali, in Italia e all’estero, parlavano del rinnovato successo dello stile torinese e del prestigio del marchio Ghia. Con il lancio del nuovo modello Fiat 1400, al Salone di Torino del 1950 la Ghia propose su questo telaio un coupè a tre posti della serie Supergioiello.

Lo stand Ghia al Salone di Torino del 1950, a sinistra si nota la 1400 Supergioiello (Archivio Moisio)

Si trattava di un tipico coupè Granturismo a due volumi di scuola italiana, con un ampio volume interno capace di contenere i bagagli nella zona posteriore. Il cambio è al volante così che il divano anteriore risulti comodo, ma a richiesta si possono ottenere anche dei posti posteriori. La vettura passò praticamente inosservata nella marea di novità del Salone di quell’anno, ma al Concorso di eleganza di Torino Gino Bartali, fresco delle vittorie alla Milano-Sanremo ed al Giro di Toscana, venne per ritirare un esemplare blu scuro, ricco di eleganti cromature. Un terzo esemplare fu presentato alla Fiera del Levante, mentre un quarto vinse il premio d’onore al Concorso di eleganza di Venezia.

1950. Gino Bartali ritira la sua Supergioiello a Torino, (Archivio Luigi Bertazzini)

Sempre nel 1950 la Lancia chiese alla Ghia di progettare un coupè Granturismo equipaggiato col nuovo motore due litri. Le specifiche erano piuttosto vaghe, si trattava comunque di una vettura a tre posti con molte parti in comune alla berlina di serie: tutta la fanaleria, il parabrezza ed il lunotto, la strumentazione ed il cruscotto, il cambio al volante, i paraurti. Boano aveva già in casa una vettura con quelle caratteristiche: la Fiat 1400 Supergioiello. Il pianale Lancia aveva inoltre delle dimensioni vicine a quello della 1400: il passo era di 2.660 cm contro i 2.650 della Fiat, mentre la carreggiata era di 1.540 cm contro i 1.326 della Fiat. Dunque la B20 avrebbe avuto anche un’abitabilità maggiore ed un volume del baule maggiormente sfruttabile. Michelotti quindi, anche per via dei tempi ristretti, pensò di ristilizzare la Fiat 1400 Supergioiello eliminandone anche qualche difetto di gioventù, come il parabrezza separato in due parti ed il padiglione troppo accentuato sul davanti.

(Sopra) Il modellone in legno dell’Aurelia B20 nella Carrozzeria Ghia. (Sotto) Il padiglione ed il posteriore della B20 in costruzione nelle stesse officine. ( Archivio Silvio Durante-Publifoto)

Ne risultò una vettura con linee più equilibrate, con un carattere sportivo più definito, soprattutto nella parte anteriore grazie alla doppia fanaleria e fortemente caratterizzata dalla calandra inclinata con la forma del classico scudetto Lancia. L’esemplare di pre-serie, verniciato in uno dei colori di serie della berlina Aurelia, fu fotografato allo Sporting club di Torino poche settimane prima del Salone dell’auto. Al Salone la Lancia posizionò il nuovo modello al centro dello stand e due esemplari di differenti colori si alternarono durante le quindici giornate dell’evento. Per non creare equivoci con la Lancia, Boano introdusse al Salone un modello aggiornato di Fiat 1400 Supergioiello con una calandra insolitamente originale, più cromature e livrea bicolore.

Il prototipo della B20 nel cortile della Carrozzeria Ghia (Archivio Riccardo Moncalvo)

L’Aurelia 2000 Granturismo riscosse subito grandi favori del pubblico e numerosi ordini. Probabilmente né la Lancia né Boano si aspettavano un simile riscontro per una vettura di serie a tre posti dal prezzo di listino di 2.600.000 lire, ovvero il 25% in più della berlina di serie. Il cospicuo numero di ordini infatti creò sin da subito una lunga serie di problemi. Nel 1951 la Ghia era una carrozzeria medio-piccola, con meno di 30 dipendenti, disponeva di spazi coperti in grado di contenere 10-12 vetture alla volta, non aveva le presse, si verniciava ancora con la pistola e si essiccavano le scocche sotto alle lampade. Dunque non erano attrezzati per una produzione di serie, seppur piccola.

Il modello di pre-serie della Lancia Aurelia B20 nella sede dello Sporting club di Torino. (Archivio Moisio)

Boano quindi corse ai ripari e chiese aiuto all’amico Vittorino Viotti che disponeva di spazi più ampi, di attrezzature più moderne e di maggiore manodopera. Viotti inoltre forniva alla Lancia anche l’Aurelia giardinetta costruita sul telaio B50. Il sub-appalto consisteva nella costruzione e nella verniciatura della scocca. Questo avrebbe consentito alla Ghia di occuparsi dell’assemblaggio della componentistica e della finizione. Nella realtà dei fatti nemmeno questo sforzo fu risolutivo perché alla Ghia non riuscivano a finire tante scocche quante ne assemblavano da Viotti e quindi la Lancia finì per coinvolgere nell’appalto anche la Pinin Farina, che già costruiva su licenza la versione cabriolet sul telaio B50 (cabriolet aggiornato a partire dal Settembre 1951 con il nuovo motore due litri).

La B20 al Salone di Torino del 1951 (Archivio Rodolfo Mailander)

Essendo stata contattata per ultima, la Pinin Farina accolse il progetto già definitivo e si limitò in questa prima fase emergenziale ad integrare la produzione eseguita dalla Viotti, con la differenza che tutta la costruzione e l’assemblaggio venivano eseguiti all’interno delle officine di corso Trapani. Proprio per questo motivo, solo un occhio esperto può notare le differenze tra una scocca costruita presso la Viotti ed una presso la Pinin Farina. Si tratta infatti di differenze non visibili esternamente perché si trovano all’interno dei lamierati: sono elementi di rinforzo, traverse strutturali, scatolati, etc. dovute ai differenti metodi di lavorazione.

Vista posteriore della B20 al Salone di Torino dello stesso anno. (Archivio Rodolfo Mailander)

Sono dunque queste differenze strutturali a caratterizzare le due tipologie di scocca e non i numeri di serie. Sappiamo infatti che la Ghia, supportata dalla Viotti, consegnò alla Lancia 98 esemplari in tutto, ma non si trattava degli esemplari numerati dal 1001 al 1099, bensì di esemplari che avevano numerazioni non consecutive poiché nè la Ghia, nè Viotti disponevano di spazi sufficienti per stoccare i pianali nelle rispettive aziende e dunque le consegne avvenivano in piccoli lotti direttamente dalla fabbrica.

Quando subentrò anche la Pinin Farina successe la stessa cosa, pur avendo questa azienda cortili più capienti. Conclusa la commessa Ghia-Viotti, la Pinin Farina completò la produzione della I serie con buona pace dei concessionari Lancia. Circa 300 esemplari furono venduti entro Natale del 1951, a meno di sette mesi dal lancio ed in tutto furono costruiti 500 esemplari.

Nel Febbraio del 1952 fu questa azienda a ricevere tutti gli ordinativi dalla Lancia e grazie ad una programmazione più concreta, si dotò anche di macchinari adatti alla produzione di serie, quali nuove saldatrici a punti ed un curioso sistema a binario, soprannominato la “giostrina” che spostava su dei carrellini le scocche dentro la cabina di verniciatura e da questa nel forno di essiccazione. Fu il primo impianto di questo tipo installato a Torino e fu fornito dalla locale ditta Emanuel, già nota produttrice di ponti sollevatori.

La catena di montaggio della B20 alla Carrozzeria Pinin Farina

I 731 esemplari della II serie furono ristilizzati sia esternamente che internamente e poiché la fornitura era in esclusiva, la Pinin Farina ottenne dalla casa madre di poter produrre su richiesta dei clienti anche dei modelli “speciali”, in sostanza più lussuosi e marchiati Pinin Farina, da vendere attraverso la propria rete commerciale.

La Lancia Aurelia B20 II serie di Pininfarina

© Paolo Giusti, automotive historian, 2023

Paolo Giusti (1964), torinese, si occupa di storia dell’automobile a livello professionale dal 2008. Dopo essere stato consulente storico del reparto restauri e progetti speciali della Pininfarina, ha collaborato con il Louwman museum di Den Haag e con l’ADAC di Munich. Da alcuni anni collabora con il MAUTO di Torino. Ha catalogato gli archivi dei Designer Frua, Michelotti, Revelli di Beaumont e Sartorelli, oltre a quelli dei fotografi Bellia, Bertazzini, Bricarelli e Moncalvo. Ha al suo attivo varie pubblicazioni, articoli e revisione di testi, oltre che a numerose monografie riguardanti le vetture che hanno partecipato a vari concorsi di eleganza sia in Italia che all’estero. Questo articolo nasce dallo studio dei documenti ritrovati nell’ufficio di Luigi Segre e nell’archivio Ghia-Aigle.

Luca Cantini è un medico veterinario esperto in comportamento animale che vive e lavora tra Lucca e Livorno. Per diversi anni ha svolto la sua professione a Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa. Convinto sostenitore dell’importanza di includere a pieno titolo i nostri amici animali all’interno della famiglia, da diversi anni utilizza le sue competenze in medicina comportamentale per progettare ambienti, complementi d’arredo e giochi che favoriscano la relazione uomo-animale. Ha scritto “L’arredogatto. Guida pratica per arredare casa a misura di gatto” (Angelo Pontecorboli Editore, 2023). 

di Luca Cantini

Vi siete mai chiesti se il vostro gatto è davvero felice? Io credo che ogni proprietario responsabile si sia fatto questa domanda almeno una volta nella vita. Ma da cosa dipende la felicità dei nostri gatti? Anche i gatti hanno i loro bisogni e più questi verranno appagati più i nostri mici saranno felici.

Alla base ci sono i bisogni primari: cibo e acqua sempre a disposizione, riparo dal freddo in inverno e dal caldo in estate, salute fisica. Certamente, direte voi, questo mi sembra ovvio. Eppure c’è un altro bisogno primario che molto spesso viene sottovalutato da noi proprietari e cioè il bisogno di sicurezza o per meglio dire il bisogno di sentirsi al sicuro. Pensate, infatti, ad un gatto che vive in un appartamento e che è costretto a nascondersi in continuazione perché si sente braccato dal perfido cucciolo che è stato appena adottato.

Oppure al povero gatto che durante la notte viene rinchiuso in lavanderia – magari con la lavatrice accesa – perché i proprietari non vogliono essere svegliati troppo presto la mattina. Pensate al micio che è obbligato a subire le eccessive attenzioni dei figli perché i bambini devono divertirsi. Insomma, sono molte le situazioni in cui il bisogno di sicurezza dei nostri gatti viene ignorato per far spazio a quelle che sono le nostre necessità.

Subito dopo i bisogni primari vengono quelli comportamentali che certamente non sono meno importanti. Un gatto ha bisogno di predare, di arrampicarsi, di graffiare e di strofinare il proprio muso sui mobili, di girare per tutta casa indisturbato, di fare cacca e pipì in lettiere sempre ben pulite e idonee alle sue esigenze. Quindi evitiamo di stare loro addosso per cercare di controllarli, evitiamo di seguirli se salgono sui mobili o se graffiano il divano (per loro graffiare è un’esigenza), smettiamo di aprire e chiudere continuamente le porte.

Al vertice della piramide dei bisogni dei nostri gatti, poi, troviamo i bisogni relazionali. Tutti gli appassionati di gatti lo sanno: i nostri amici sono capaci di stringere relazioni forti con altri gatti, con altri animali presenti in casa, ma soprattutto con noi. Ecco che sarà molto importante riconoscere questo loro bisogno di relazione e far di tutto per appagarlo.

Come? Ad esempio giocando di più con loro ma anche non confondendo ogni loro miagolio come una semplice richiesta di cibo. Insomma, cerchiamo di osservare di più i nostri gatti, solo così potremo stringere legami forti con loro.

E allora non ci resta che tornare alla domanda iniziale: vi siete mai chiesti se il vostro gatto è felice. Di certo se vi siete fatti questa domanda il vostro gatto è fortunato perché è già sulla buona strada verso il traguardo della felicità.

di Chiara Giampieretti 

Dimenticate l’immagine stereotipata della Sicilia. La casa di moda Asciari, nata a Milazzo dai fratelli Federica e Pietro Mazzettini e dalla loro madre Marta Cigala, si sta imponendo nel mercato internazionale come un brand pronto a stravolgere i dettami del ben vestire siciliano. Sobrietà raffinata e qualità dei tessuti sono i leitmotiv dell’azienda, ma per saperne di più abbiamo voluto dialogare con una delle menti di questo progetto innovativo che travalica quanto era già stato espresso dalla nostra Isola, Marta Cigala. 

Asciari

La prima cosa che mi ha colpita di Asciari è la differenza fra il suo stile minimale, essenziale, contraddistinto da toni naturali e la moda siciliana tradizionale, caratterizzata invece da colori cangianti, fantasie elaborate. Come si è originata questa divaricazione rispetto all’immaginario diffuso sulla moda siciliana?

Perché è per l’appunto un immaginario diffuso, come in Dolce e Gabbana: mattonelle, maioliche, colori, fantasie. Noi invece siamo l’opposto: siamo sobri perché da sempre siamo così. Questo modo di vestire austero era diffuso già nell’antica Sicilia, e lo ritroviamo anche nel paesaggio, nei colori della natura siciliana.

Che cosa ha portato alla nascita del brand? Quale visione vi ha ispirato?

Il brand nasce da me e dai miei due figli, Pietro e Federica. Pur non avendo legami col mondo della moda, l’abbigliamento è sempre stato connaturato in noi stessi: in famiglia abbiamo sempre prestato attenzione alla scelta dei materiali e preferito gli abiti su misura. Poi, a un certo punto, non trovando sul mercato capi in grado di soddisfarci, ci siamo chiesti: perché non cominciare a realizzarli personalmente?

Asciari
Pietro (a sx) e Federica Mazzettini e Marta Cigala (a dx), i fondatori di Asciari

Immagino serva intraprendenza per decidere di aprire una casa di moda oggi in Sicilia.

Ci vuole spirito di avventura, un po’ di incoscienza e soprattutto passione. Gli sforzi vengono ripagati col successo che stiamo avendo, soprattutto all’estero.

Quali sono i Paesi in cui vendete di più?

Il primo Paese a interessarsi ad Asciari è stato Giappone. Durante il White Show tenutosi a Milano, durante il quale abbiamo presentato la nostra prima collezione, siamo stati notati da un agente che lavorava in Giappone presentando marchi italiani. Gli siamo piaciuti, e da lì è cominciata questa collaborazione. Ad ogni modo, ora siamo molto apprezzati anche in Corea.

Quindi soprattutto Estremo Oriente.

Non solo, anche in America. Acquistano i nostri capi anche negozi svizzeri, austriaci, tedeschi, francesi. In Italia, invece, non ci sono molti punti vendita.

Asciari
Uno scorcio dello store di Asciari a Milazzo

A proposito di gusti, oggi è di tendenza il quiet luxury, ovvero uno stile semplice, essenziale ma che sia anche raffinato ed elegante, un lusso privo di ostentazione. Sembra sposarsi bene con l’immaginario di Asciari.

Sì, è proprio quello che vogliamo rappresentare. Un lusso discreto, presente ma sobrio. Forse è una tendenza apprezzata di più all’estero, magari c’è meno provincialismo.

Un’altra inclinazione contemporanea è l’attenzione verso l’ambiente. Dato che gli abiti realizzati da Asciari, coi loro colori della terra, suggeriscono un legame con la natura, come si posiziona il brand nei confronti della sostenibilità?

Per noi sostenibilità significa produrre sul territorio, non inviare i capi all’estero, non sfruttare i dipendenti ma pagarli adeguatamente anche a scapito del nostro guadagno. Sostenibilità è anche lavorare con tessuti naturali certificati, anche bio. Ad esempio, nonostante l’industria del jeans sia la più inquinante al mondo, noi scegliamo di lavorare con il denim prodotto da Candiani, lavorato in modo naturale, senza agenti chimici.

Cosa si augura per il futuro?

In questi giorni ho per le mani il libro “La moda è un mestiere da duri”, ed è veramente così. È un lavoro duro, non è solo l’immagine di sfilate, divertimenti, ricevimenti. Nonostante si parli di crisi in tanti settori, non si nomina mai quella del tessile, anche se l’abbigliamento è trainante per l’economia italiana. Si dovrebbe guardare con più serietà a questo settore, anche da parte dei politici.

Il sito di Asciari: https://www.asciari.com/it/asciari/

di Giuseppe Cultrera   

Giuseppe Bonafede, il poeta popolare ibleo, l’ho incontrato nel 1980 quando assieme agli amici del Circolo Culturale Acrille, e con l’attiva e colta collaborazione di Francesco Melfi, fu ristampato in anastatica Fiori Silvestri, raccolta di canti popolari edita a Ragusa nel 1910. Poco dopo, in occasione della presentazione del libro, conobbi Umberto Migliorisi. Era interessato a quest’originale poeta del quale stava curando una scelta di poemetti editi e inediti. Ne nacque un’assidua frequentazione che si trasformò in amicizia: della quale serbo nostalgica e commossa memoria, per i cento e più progetti culturali condivisi (tra questi la cura editoriale di una decina di sue opere, gran parte in versi). Una di queste fu la raccolta antologica dal titolo U ditturi Pruvulazzu, poemetti scelti di Giuseppe Bonafede a cura di Umberto Migliorisi, Utopia Edizioni, 1985. Non ho detto che l’anno prima era nata dalla passione e audacia di un gruppo di amici, più e meno giovani, la casa editrice Utopia, che si riprometteva di dare spazio e visibilità alla cultura e arte iblea del passato e presente. U ditturi pruvulazzu era il terzo progetto editoriale. E fu tra i più apprezzati, per la risonanza e il rilievo che ebbe il Bonafede (Leonardo Sciascia, per esempio, fu tra quelli che ne dettero testimonianza) e per la diffusione (mille copie, in poco tempo esaurite).

Giuseppe Bonafede: incontri, percorsi, coincidenze
Tre riproposte dei testi poetici di Bonafede, a cura di Dino Barone, Umberto Migliorisi e Vann’Antò

L’anno scorso, curiosando su eBay, mi imbatto in una di quelle mille copie. La nota di presentazione dice che si tratta di una raccolta poetica di un autore ragusano, Giuseppe Bonafede, in ottimo stato di conservazione e che nella prima pagina si trova apposta una dedica con firma autografa dell’autore, verificabile dalle immagini allegate. Incuriosito clicco sull’immagine e leggo «Ibla 26/9/85 – a Giovannella ed Emanuele con tanta simpatia – Giuseppe […]». Ovviamente il Giuseppe che firma la dedica non è Bonafede, già scomparso in quella data da quasi cinquant’anni, ma sono io, uno degli editori del libro; e quello che mi intriga, oltre al ritorno alla memoria della presentazione a Ibla (credo a cura del prof. Filippo Garofalo) sono i nomi dei destinatari del dono: due altri cari amici, il poeta Emanuele Mandarà e la giovane moglie Giovannella Moncada, docente e collega di mia moglie (che cofirma la dedica).

In un libro ci stanno, spesso, più storie. Quella che l’autore ha voluto porgere ai suoi lettori, quella che i lettori, pochi o tanti, recepiscono dilatandola, trasponendola, introitandola ecc. e quelle che, per svariate coincidenze, si sono sovrapposte, aggiunte, nascoste. Come quella che ritrovavo nella copia giunta, non so attraverso quali percorsi, nella libreria antiquaria toscana e che mi sono affrettato a comprare.

Giuseppe Bonafede: incontri, percorsi, coincidenze
Potentato economico e politico a Ragusa nel secondo ottocento, in una foto di Carmelo Arezzo di Trifiletti: un deputato in carica (Pietro Beccardelli, al centro con tuba) due sindaci (alla destra del deputato, il barone Federico Grimaldi e a sinistra, in primo piano, Raffaele Solarino) un deputato emerito (Emanuele Schininà, dietro Solarino, con tuba)

Con Utopia pubblicammo un secondo volume, La mia storia, un poemetto inedito nel quale il Bonafede in 212 ottave raccontava l’amara vicenda dell’accusa di furto, arresto e detenzione nel carcere di Modica; dalla quale fu prosciolto, ma che segnò profondamente la successiva vita sociale e familiare. In quanto perdette l’impiego, seppur precario, presso il municipio di Chiaramonte e fu costretto a trasferirsi a Ragusa, dove si dedicò principalmente alla poesia, facendone una fonte di sostentamento. I suoi pometti satirici, spesso “suggeriti”, a favore o contro un candidato politico locale o piovuto nel collegio da fuori, ebbero notevole risonanza e successo. Li pubblicava in fogli volanti o libretti piccoli che la gente acquistava volentieri per leggere le sferzanti rime che esplicitavano ciò che molti pensavano e avrebbero voluto dire sul governo, le tasse, la burocrazia e il potentato economico; sulle sciarre dei poveri diavoli e sugli avvocati, medici, preti e monaci, che ci campavano sopra. E a coloro che non potevano o sapevano leggerli – la maggior parte, dal momento che l’analfabetismo era imperante – il poeta popolare le recitava lui: perché come tutti gli aedi popolari Giuseppe Bonafede era cantastorie e cuntastorie. Lo testimoniava il figlio Nazareno (il più piccolo dei suoi undici figli) che nel 1985 incontrai nella sua modesta abitazione di Ibla.

Ci andammo con Umberto Migliorisi. Nazareno Bonafede aveva 83 anni, ci accolse con affabile amicizia e si sottopose a una lunga intervista sulla vita e l’opera del padre (parte fu trascritta e riportata nel volume Giuseppe Bonafede: La mia storia, a cura di Umberto Migliorisi, Utopia, 1991) accalorandosi per le ingiustizie e persecuzioni che il padre aveva sofferto, proclamando la totale innocenza e la sua estraneità ai presunti reati attribuitigli. Ricordo di quest’uomo l’aspetto aristocratico evidenziato dalla magrezza e biancore della pelle, dai tratti dolci del volto, dalla voce armoniosa che di colpo si faceva stentorea quando riaffioravano le angustie e vicende familiari. Somigliava molto al ritratto fotografico del padre.

Alla domanda: «È vero che le poesie di suo padre sono state recitate anzi cantate dai cantastorie?», Nazareno rispose prontamente: «Sì, è vero. Ci fu un cantastorie modicano ca rissi a mio padre: -Professore, mi dà qualche poesia, che io la canto e nel frattempo ve la diffondo?»

E continuava parlando di tanti altri che avevano recitato in pubblico le composizioni paterne. Compresi alcuni dei figli, i suoi fratelli Amleto e Folchetto per esempio.

Folchetto lo conobbi, qualche anno dopo, a una presentazione o manifestazione dedicata al padre Giuseppe. Era di Ribera e gestiva una trattoria: dove a volte, a richiesta dei clienti, imbracciava la chitarra e improvvisava una stornellata o musicava versi del padre. «La poesia e la musica l’abbiamo nel sangue noi Bonafede!», concludeva con un sorriso largo.

In effetti l’incontro e la scoperta del poeta popolare Giuseppe Bonafede, ne aveva suscitato altri.

Giuseppe Bonafede: incontri, percorsi, coincidenze
Il poeta Giuseppe Bonafede. Il letterato Serafino A. Guastella. Il deputato Evangelista Rizza

La figura e l’opera di Giuseppe Bonafede (Chiaramonte 1857 – Ragusa 1940) nell’ultimo quarto del Novecento suscitò la curiosità e l’attenzione di ricercatori e studiosi. Oltre alle citate due monografie di Umberto Migliorisi (U ditturi Pruvulazzu e La mia storia) parecchi articoli, brevi saggi, relazioni in convegni di studi, ebbero per tema il poeta ibleo. Lo stesso Leonardo Sciascia, parlando del Guastella, gli dedicava un’arguta nota. «Che era il Bonafede, si può aggiungere, uomo di poverissima condizione, certamente illegittimo, che aveva nativo e fertile il dono di foggiare endecasillabi e ottave, inesauribilmente e non di rado attingendo alla poesia. […]

In quanto al Bonafede, mi par bello che il vecchio e colto barone se lo sia tenuto vicino: vera o malignamente presunta che ne fosse la paternità. Illegittima la nascita, ma legittimo il fatto che il poeta popolare restituisse al ritmo e al senso delle ottave e dei versi non si sa quanto antichi e la cui sorte è stata sempre quella delle variazioni, dei rifacimenti, degli adattamenti ai luoghi, alle circostanze, agli stati d’animo dei singoli e delle collettività che li ricevono, li ripetono, li trasmettono. Forse per il Guastella l’aver accanto il Bonafede era un’esigenza di verificare, di vagliare: un’esigenza che approssimativamente si potrebbe dir critica.»

Sulla stessa onda il Vann’Antò, poeta e docente: «Dal padre il Bonafede ereditò, diciamo, il genio poetico, l’inclinazione cioè alla poesia, e a quella popolare in ispecie, che amò e coltivò per tutta la vita, non già da studioso bensì, ma a essa attingendo e come poeta quasi unicamente ispirandosi, riprendendone i temi popolari più famosi, a servizio ancora dello stesso popolo, della pupulazioni, a cui si rivolgeva infatti, chiedendogli anche il pane per vivere!»

Affascinò, oltre al citato Umberto Migliorisi, Carmelo Assenza, Emanuele Schembari e Carmelo Conti – che furono tra le più attente e originali voci poetiche del secondo Novecento – gli studiosi Giorgio Piccitto e Dino Barone, il colto regista teatrale Gianni Battaglia che nutrì dei suoi vivaci versi un coinvolgente spettacolo teatrale. Altri incontri, percorsi, coincidenze.

Giuseppe Bonafede: incontri, percorsi, coincidenze
Copertina del volume che si presenta dopodomani all’interno della manifestazione Liberi a Ragusa, nello spazio “Omaggio a Giuseppe Bonafede”. Le foto riprodotte nel testo sono tratte dalla sezione Immagini

Banner: foto di Giulio Lettica

di Vito Castagna 

Henry Kissinger amava il cinema e le attrici tanto quanto la politica e la diplomazia. Protagonista indiscusso in campo internazionale, si circondò di figure provenienti dal mondo dello spettacolo, una fra tutte quel Robert Evans nientepopodimeno che vice presidente della Paramount dal 1966. 

Negli anni del sodalizio tra Kissinger ed Evans la celebre casa produttrice portò in sala “C’era una volta il West” (Sergio Leone), “Rosemary’s Baby” (Roman Polanski), “La strana coppia” (Gene Saks) e altri successi. Durante la prima mondiale de “Il Padrino” (Francis Ford Coppola) Kissinger, che ricopriva la carica di Consigliere per la Sicurezza Nazionale, venne fotografato a fianco dell’amico Evans. 

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Henry Kissinger (a dx), Robert Evans e Ali McGraw (a sx) durante la presentazione de “Il Padrino”

In fondo, quello del Cinema era un mondo perfettamente congeniale a Kissinger, fatto di conoscenze influenti, relazioni, favori e donne. E come accade dall’alba dei tempi il potere è indissolubilmente legato al sesso o, quantomeno, lo attira a sé.

Pur non avendo il physique du rôle, Kissinger ebbe numerose amanti, molte delle quali dive di Hollywood. Liv Ullmann, Shirley MacLaine e Candice Bergen sono le più note. La Ullmann affermò pubblicamente che lo statista era la persona più affascinante che avesse mai conosciuto. Nel ‘72, le modelle della nota rivista Playboy lo incoronarono persino “uomo dei loro sogni”. Potremmo definirlo un fascino plebiscitario. 

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Liv Ullmann in “Persona” di Ingmar Bergman

Il rapporto tra Kissinger e il Cinema fu quindi intensissimo, passionale fino ai limiti del carnale. Di certo il grande schermo cercò in più modi di ricambiare il suo amore. Diversi film sono stati dedicati alla sua figura; Alberto Sordi ne vestì i panni in una pellicola mai realizzata. 

Un vero peccato. Il Kissinger nazionale avrebbe incarnato perfettamente gli stereotipi dell’italiano donnaiolo tanto caro a molti nostri film, ma non tutti i connubi danno risultati soddisfacenti. 

Alberto Sordi nei panni di Kissinger (foto: la Repubblica)

di Ariane Deschamps

È uscito il nuovo libro di Giuseppe Leone dal titolo evocatore “Pausa Pranzo”. Non ci si deve soffermare però sul titolo, perché c’è molto di più che una semplice “pausa”. C’è il racconto di una vita, la voglia di condivisione, sicuramente l’auspicio del ritorno a fare comunità.

Così come la società contadina e operaia è cambiata radicalmente negli ultimi decenni, anche il pranzo ha avuto il medesimo destino. Un rito attraverso il quale, fin dalla notte dei tempi, ogni individuo in famiglia aveva la possibilità di raccontarsi attraverso gesti e parole, silenzi e sguardi. Ma anche nella solitudine davanti ad una tazza di latte, in cucina, era pranzo e godimento.

Giuseppe Leone in uno scatto di Ariane Deschamps

Bisogna prendersi tutto il tempo necessario per osservare scatto per scatto e assaporare ogni istante del viaggio spazio-temporale di una Sicilia così ben narrata dall’autore. Colpisce da subito la verità di questi momenti, così spontanei, che rimandano alla nostra stessa esperienza di gente del sud: la condivisione del pane sotto gli ulivi dopo la raccolta delle olive, o la domenica della tavola allungata e dalle pietanze infinite (vivo in Sicilia da quasi 30 anni e mi considero a pieno titolo siciliana).

Chi conosce bene la Sicilia non avrà alcuna difficoltà a cogliere gli ossimori che la rendono unica. Nei contrasti, troviamo i sorrisi dei bambini della prima comunione, dei padri e delle madri con i loro figlioletti, i pranzi nelle umili taverne o nei ristoranti eleganti, la seggiola arrangiata per rifiatare, nelle vigne. Individui di ogni classe sociale si offrono allo sguardo di chi sa cogliere dettagli e sfumature. Mentre la tavola diventa il luogo più intimo in cui forse ci si può dimenticare, per un momento, delle responsabilità e delle difficoltà della vita.

Il Maestro ci consegna anche dei frammenti intimi di personaggi conosciuti, del passato o contemporanei: Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vittorio Sgarbi, Dacia Maraini e altri che hanno caratterizzato, nel bene e nel male, la storia di questo paese negli ultimi decenni. Nella condivisione, li si scopre forse più umani, meno inarrivabili, a tratti quasi familiari.
Occorre anche osservare attentamente le “scenografie” in cui avvengono queste “pause pranzo”: nelle piazze come nei campi, nelle strade come sui muretti a secco, nei saloni eleganti come nelle case in costruzione. Ovunque ci si trovi può arrivare l’occasione della “pausa pranzo”, che è un invito a ri-tornare al piacere della condivisione, poiché in quei momenti è semplicemente un tornare ad essere.

Dunque non un semplice libro di ricordi immortalati negli scatti d’autore di Peppino Leone, ma un commovente viaggio interiore, ancorché nei costumi di un popolo, tra ricordi ancora colmi di odori e di gusti.

di Luigi Lombardo

I Monti Iblei (Ragusa e Siracusa) abbondano nel periodo estivo di erbe aromatiche nelle quali le api pascolano: sono il timo, la melissa calamitha (nipitedda), l’issopo (suopu) ed altre. Dal nettare le api producono un miele “estivo” particolarmente profumato, ricco di sostanze nutritive, denso e scuro, chiamato in genere satru o meli di satira (così nei documenti d’archivio), nella cui produzione eccellevano un tempo i Sortinesi, abilissimi allevatori-apicultori. Ma chiaramente non era loro esclusiva: Ragusa, Chiaramonte, Vizzini e anche Palazzolo contendevano il primato alla cittadina iblea, nota oggi per una sagra del miele, certamente da rivalorizzare.

Questo miele si raccoglie alla fine dell’estate e tale raccolta prende il nome di maniu ro satru (maneggio del miele di timo).

il miele ibleo
Monte Lauro (foto Giulio Lettica)

Si dispongono le arnie (dette vascietri o fascietri, nel subdialetto di Sortino si scempia) su un tavolo di lavoro detto maniaturi. L’apicultore (u fascidaru nel sub dialetto) onde ammansire le api, accende in un recipiente detto u pignatu dello sterco perfettamente seccato di bovini. L’apertura dell’arnia avviene con religioso silenzio, solo mentalmente l’operatore pronuncia delle speciali invocazioni propiziatorie, che devono rimanere segrete per paura che perdano d’efficacia.

Estratti i favi (virischi) pieni dall’arnia, li sostituisce via via con quelli vuoti. Quelli ricolmi di miele che gronda vischioso e scuro vengono riposti in dei contenitori di terracotta smaltata e pressati con un bastone (ncugnati), la pasta ottenuta mista di cera e miele, viene passata dentro ceste (cruvetri), da cui il miele scola dentro un calderone collocato sotto (il primofiore). La pasta, priva del miele scolato, prende il nome di tufu e si passa al torchio (u conzu), nel quale con potenti strette si separa ulteriormente il miele dal residuo di cera, che resta imbrigliato nelle coffi: questo miele è detto meli i secunna (miele di seconda scelta).

La cera rimasta imbrigliata si stacca dalle fiscelle e si pone a bollire in un calderone, mescolandovi i nodi della paglia (i ruppa i pagghia). Si continua a mescolare e raggiunta una certa temperatura, si estrae la pasta rimasta e si torchia ulteriormente. Questa volta nelle coffe resterà solo la paglia e residui solidi detti nuozzuli i cira, mentre la cera sciolta scivola liquida nella tina e da qui passata ancora calda nei lemmi, contenitori di ceramica smaltata di Caltagirone, dove solidifica raffreddando rapidamente. Il miele si versa nelle giare o in speciali cati, che sono sorta di quartare smaltate dal collo molto largo.

Resta nella tina il liquido di risulta derivato dai precedenti processi di lavorazione che non si butta, ma appena raffredda (rriseri), si lascia a fermentare, dal momento che contiene ancora una certa quantità di zucchero, che si lascia per diversi giorni a fermentare, aggiungendo erbe aromatiche e scorze di mandarini e arance (si cci fa a stufa).

Ultimata la fermentazione si passa da un antico alambicco (oggi sostituito da più efficienti distillatori), dal quale stilla a stilla fuoriesce il prezioso spirito chiamato ora spiritu i meli, ora spiritu i fascitraru, ma i vecchi mielai lo chiamavano “sanamalati” e così lo chiamerà anche l’etnologo A. Uccello, nel suo La civiltà del legno in Sicilia. Quelli poi che ne capiscono di più lo chiamano (ma assai impropriamente) sacro idromele: la bevanda degli dei. Tale in effetti ci sembra, una sacra bevanda, specie quando le sapienti mani del mastro milaru sa dosare un denso sciroppo di miele cotto (il procedimento è simile al vino cotto) al bianco spirito, ottenendo un liquore che ha il colore dell’ambra.

Antonino Uccello (foto: Istituto Euroarabo di Mazzara del Vallo)

Oltre al miele “estivo” essenzialmente di “satira”, si facevano almeno altre due raccolte: una del cosidetto meli i ciuri (miele di fiori, dalle zagare soprattutto), che si produce, ancora oggi, tra maggio e giugno, quella estiva di cui si è detto, ed una particolarmente ricercata al tempo della fioritura del carrubo (u meli i carrua), indicatissimo per tutte le affezioni di gola e bronchiali.

Anche presso gli Egiziani il miele era raccolto, specialmente nel Delta, di due qualità rosso e chiaro, ed era conservato in giare con coperchi sigillati con cera.

Il miele era la materia prima usata da una particolare categoria di dolcieri (cosaruciari) detti mastri cubaitari, per distinguerli da altri dolcieri detti cunfecterii, che lavoravano come dolcificante e materia prima lo zucchero (di canna agli inizi).

Uno dei più antichi documenti scritti di cui siamo in possesso riguarda mastri cubaitari ragusani: in un documento conservato presso la sezione staccata dell’archivio di Stato di Modica, nel fondo di un notaio del 1510, mastro Mazzeo de Vinuto abitante in Ragusa, confessa di aver ricevuto da mastro Pietro Lombardo di Ragusa «cantarea duo et rotula 25 di confecta compartuta di meli di satra cioe la confecta la cubaita di meli di charruba e lu restu di meli di satra appoi di la cubaita chi devi essiri meli di charruba», il prezzo che si stabilisce è quello di un cavallo di «pilu sauru facholu» (Archivio di Stato di Ragusa sez. di Modica, notaio Raniolo, vol. 351/1). E qui è doveroso far notare come quasi esclusiva della Contea di Modica fosse la produzione di miele di carrubo, presto diffusosi in altri contesti dove era presente il frutto della pianta che gli Arabi, come pare, ci hanno donato.

Una miniatura del Tacuinum Sanitatis del XIV sec.

La “posta delle vascelli” era inclusa negli iura communia di cui godevano le comunità locali e i bandi civici, fissati per iscritto nelle Pandette comunali, lo specificavano:

«Diritti promiscui dei cittadini di Sortino: Prendere le poste delle api con far pascere le vetture addette a tal servizio senza pagare cosa alcuna; Di tagliare ne’ boschi e nelle parti machiose legno morto, legni selvatici cioè oleastri che nascono sotto gli alberi di olivo senza toccare i fusti di essi alberi, ginestre e lentischi e far carbone di detti legni, ed i maestri falegnami tagliare anche degli olmi, e di potere tutti coloro che tagliano de’ legni della sorta surriferita, o fanno carbone far pascolare in quelle vicinanze i loro animali da soma addetti a tal servizio; Raccogliere ogni sorta di erbe e frutti di alberi selvatici meno che le ghiande Far fornaci per calce, e far pascolare gli animali durante il tempo del lavoro». (Fondo privato Gaetani Specchi presso l’Archivio di Stato di Siracusa).

Anche i contratti di gabella prevedevano il diritto riservato ai “vascellari” di poter costruire le “poste” degli alveari nei fondi agricoli o nei feudi che si gabellavano triennalmente:

«Palazzolo 20 dicembre1591, Matteo Scatà gabella ad Antonino Cardogna l’erbagio del luogo chiamato di la Migliarina» nel territorio della città di Noto al prezzo di onze 4, che il gabelloto si impegna a versare in pecunia col patto che «li vaxellari posano trasiri et da mentri fanno servizio tenerci li loro bestii secondo la consuetudine di ditta cità di Noto e che ditto gabelloto non posa tagliari ne cogliri nessuno arboro […]» (Archivio di Stato di Siracusa, notaio Masuzzo Antonino, vol.8975).

(foto: MtChallenge)

Era così prezioso il miele che Cristoforo Colombo, scrivendo alla regina di Spagna, nel richiedere beni di prima necessità di cui non si poteva fare a meno, include il miele:

«In particolare, per quanto riguarda le malattie, richiedete le cose di cui accusiamo maggiormente la mancanza, vale a dire uva passa, zucchero, mandorle, miele e riso… Del pari direte che, oltre alle cose che lì si mandano a chiedere … sarebbe bene ricevere dall’isola di Madera, cinquanta barilotti di miele per il sostentamento dei sani e dei malati, poiché è il miglior ricostituente del mondo e il più salutare, e ogni barilotto non costa più di due ducati, senza il vuoto». (da: C. Colombo, Lettere ai reali di Spagna. Palermo, Sellerio 1991, pag. 16; e pag. 29).

 

*Avverto che si tratta di un testo, ampiamente rivisto oggi, scritto quando ancora le tecniche, qui descritte per estrarre il cosiddetto spirito di miele, erano ancora ampiamente praticate dagli apicultori di Sortino. La mia fonte è stato Giuseppe Blancato, sortinese doc, al quale devo tante altre informazioni sull’allevamento delle api e la produzione del miele. 

Sullo stesso argomento: Le pietre di Pantalica di Giuseppe Cultrera.

ovvero
La felicità è una scelta

di Giulia Cultrera 

Se facciamo un’analisi della nostra vita, in quanti momenti possiamo dire di essere stati pienamente felici?

Basterebbe ripercorrere le tappe più importanti, dall’infanzia a oggi, per notare come a un certo punto si sia inceppato qualcosa. I momenti di serenità e spensieratezza, lo stupore infantile di fronte a qualsiasi novità hanno lasciato il posto ai doveri e alle scadenze, alla paura di non farcela e di non essere all’altezza, ai sensi di colpa e ai rimpianti.

Da un lato è normale: un po’ si cresce e aumentano le responsabilità, un po’ ci si dimentica di apprezzare le piccole cose. Probabilmente si tratta anche di un problema culturale: tendiamo a pensare che la felicità sia correlata a grandi risultati, come laurearsi, trovare un lavoro, perdere dei chili, sposarsi o avere dei figli.chiedimi se sono felice

Finiamo per attribuire la felicità a qualcosa che non abbiamo, a un traguardo che dobbiamo ancora raggiungere, perché soltanto quello ci renderà davvero soddisfatti e realizzati. Ma poi, finalmente, conseguiamo quella tappa tanto attesa e, tuttavia, ci sentiamo ancora incompleti.

Rientriamo nella ruotine, intrappolati nella voragine di scadenze e procrastinazioni. I giorni trascorrono tutti uguali e ben presto si trasformano in mesi e anni. Alcuni traguardi vengono persi per strada, altri non saranno mai raggiunti perché cambieremo direzione o ci fermeremo prima.

Magari non dovremmo guardare alla felicità come a una destinazione, ma più come a un percorso da intraprendere indipendentemente dalla direzione. Essere felici nel qui e ora, perché il passato non può essere cambiato e il futuro non si è ancora concretizzato.chiedimi se sono felice

di Giuseppe Cultrera 

Tony Barbagallo è romagnolo di nascita (Bologna, 1936) ma siciliano, anzi vittoriese, per amore e scelta di vita. A Vittoria è facile incontrarlo, specialmente nel suo studio fotografico di via Cavour, il più delle volte davanti alla porta o nello spazio antistante, tra la gente e gli amici. Largo sorriso e affabilità romagnola. Ironia e coralità siciliana.

L’ amicizia risale al 1984 quando mi fornì le foto per la mia prima pubblicazione, una guida della provincia di Ragusa: nello stesso anno fu il fotografo del mio matrimonio. Le volte che scendevo a Vittoria (noi chiaramontani diciamo così quando andiamo nei paesi sottostanti) la visita al suo laboratorio, con mostra delle ultime diapositive e foto, era una tappa obbligata. Vi trovavo, il più delle volte, gli altri amici che dovevo incontrare: un viagghiu e du sirbiza! Negli anni più recenti l’ho incontrato di meno, ma la sua calorosa vivacità non si è per niente assottigliata. Adesso lavora alla revisione del grande archivio di immagini.

Tony Barbagallo: fotoreporter e documentarista
Tony Barbagallo – (a destra) manifesto della mostra in corso

Da metà anni cinquanta Tony Barbagallo ha fotografato gli eventi socio politici e culturali della città di Vittoria. La cronaca specialmente. Le sue foto sui quotidiani e sulle riviste illustrate dell’ultimo Novecento hanno testimoniato momenti ed evoluzione di una parte della Sicilia orientale (le immagini, specialmente di documentazione etnica, culturale e storica, si riferiscono a un’area più ampia, quella degli Iblei) e adesso il vasto deposito di memoria si fa testimonianza e storia sociale. Lo si incontrava spesso alle manifestazioni, agli eventi sportivi, alle feste religiose e alle sagre, con la sua immancabile e fedele macchina fotografica appesa al collo, pronto a impugnarla e scaricare il caricatore spavaldamente e giocosamente come i veloci pistoleri americani che in quegli anni affollavano gli schermi Technicolor. Una parte significativa, ma per ovvi motivi logistici minima, da ieri è in mostra a Vittoria (Sala delle Capriate Giovanni Molè).

Tony Barbagallo: fotoreporter e documentarista
Sole a perpendicolo. «È una foto del 1969: sulla piazza principale di Vittoria deserta e assolata un uomo si ripara il capo con uno spesso foglio di carta seduto davanti a una bancarella di libri usati in attesa di lettori che non si vedono.»  (Le foto di Barbagallo su un mondo al tramonto, ANSA, 20 nov. 2023)

Andateci e scoprite o rileggete, nel terso bianco e nero, il racconto di questo «fotoreporter e documentarista» che «ha tracciato nel solco di una tradizione di grandi fotografi regionali (Enzo Sellerio, Nicola Scafidi, Letizia Battaglia, Giuseppe Leone) un suo cammino con una forte identità; ha trovato nella foto documentaria il terreno fertile sul quale indagare, come la civiltà contadina che stava per essere sconvolta da nuove pratiche agricole, i mestieri a essa legati, le ultime botteghe ancora attive di lattonieri, falegnami, calzolai, bottai, tornitori del legno, cestai e tutto il mondo della vendemmia con i suoi protagonisti, gli ultimi pittori di carretti siciliani…» (Arturo Barbante).

Troverete probabilmente anche lui, Tony Barbagallo, con il suo fluido e affabile eloquio: empatico ed equamente capace di narrare con le parole, quanto con l’obiettivo della sua inseparabile Leica.

Tony Barbagallo: fotoreporter e documentarista
Una delle foto più note e pubblicata su varie riviste nazionali: Chiaramonte Gulfi, la signorina Giovanna Laterra, miracolata da Papa Giovanni XXIII, apre la processione della Madonna di Gulfi, 1968

di L’Alieno

L’elezione del bizzarro Javier Milei, a Presidente, e la lunga storia populista argentina caratterizzata dalle molteplici bancarotte (nove in duecento anni, 3 negli ultimi 20 anni), fanno di quel grande paese latino-americano un monito per tutto l’occidente democratico quanto alle derive a cui può portare il populismo. Non importa se di destra o di sinistra, non importa se peronista o “anarco-capitalista” (come si definisce il “Mr. motosega” argentino).

Javier Milei e la motosega, simbolo della sua campagna elettorale anti-casta

Il loro linguaggio è sempre lo stesso a tutte le latitudini e soprattutto c’è sempre l’individuazione di un nemico da odiare, da abbattere, una paura da riattizzare, una complessità da semplificare. Che poi sia la Banca Centrale Argentina, come nel caso di Milei, o il Fondo Monetario Internazionale, o gli immigrati o l’Unione Europea e le sue regole (nel caso dei diversi partiti estremisti europei), è solo un dettaglio. Il sovranismo economico, l’anti-globalismo, l’odio per il multiculturalismo e le immancabili simpatie per Putin, Trump e Bolsonaro completano spesso il quadro.

In Italia è notizia di questi giorni l’accordo politico tra quel campione della demagogia nostrana di estrema sinistra, Marco Rizzo, e quello dell’estrema estrema destra, Gianni Alemanno. Sorprende? Non direi. Sono le due facce (arrabbiate) della stessa identica medaglia populista. E se alla compagnia rosso-bruna si unissero anche altri soggetti in cerca di autore, come Gianluigi Paragone e altri grillini di vecchia ortodossia, non dovrebbe meravigliare nessuno.

Ma il problema purtroppo riguarda tutto l’occidente. Già la “Brexit”, con i suoi ingenti danni economici, ne è stata la vittoria più clamorosa in Gran Bretagna. Se poi Trump fosse rieletto a Presidente degli USA, a quel punto, entreremmo in una “geografia sconosciuta” come ha detto qualcuno. Ma anche nel vecchio continente c’è poco da stare allegri tra Marine Le Pen, Alice Weidel, Santiago Abascal, Geert Wilders (fresco vincitore in Olanda), Matteo Salvini e gli Orban dell’est Europa. E l’anno prossimo l’esito del voto per il rinnovo del Parlamento europeo ci darà indicazioni…

(Da sinistra) Gianni Alemanno e Marco Rizzo

La Meloni come si posizionerà in questo scenario che rischia di diventare caotico? Be’, nonostante i suoi non pochi difetti politici, non si è comportata da tipica populista, ad oggi. Un po’ come lo fu Conte. Abbastanza prudente. Preoccupata di non dispiacere troppo alle cancellerie europee, almeno in questa fase. E questa sua accortezza ha cercato di limitare i “colpi di testa” inopportuni del governo (con qualche ridicola eccezione). Una prudenza per la verità malsolportata dagli alleati come la Lega salviniana e di parte del suo stesso partito.
Come a dire, non possiamo né potremo stare tranquilli nel prossimo futuro.