Sappiamo bene che quello di crisi è un concetto abusato ma, tra crisi reali o presunte, quella che affligge l’editoria giornalistica è sotto gli occhi di tutti. Il numero al ribasso delle copie vendute, causate da una riduzione sempre più profonda dei lettori è solo uno dei segnali di un mondo in agonia. La reazione spesso viene scovata nei social, ma l’algoritmo di Zuckerberg sa essere implacabile anche di fronte ai colossi dell’informazione. Eppure, mentre i giganti hanno i piedi d’argilla, le realtà editoriali online sguisciano sulla rete senza alcun affanno, in una crescita costante di lettori e di ricavi. E’ la fine del giornalismo per come lo abbiamo conosciuto?
Lo chiediamo a Michele Brambilla, che lavora come giornalista e saggista dal 1976. È stato vicedirettore di Libero, Il Giornale e La Stampa, direttore della Gazzetta di Parma, del Quotidiano Nazionale, de Il Resto del Carlino e de La Provincia di Como. Oggi collabora con alcune delle maggiori testate italiane. Celebre il suo “L’eskimo in redazione. Quando le brigate rosse erano sedicenti”.
Michele Brambilla (foto: Ansa)
Quanto è stato influenzato il ruolo direttore durante questi anni di crisi?
Una volta il direttore del giornale impostava il lavoro, stabiliva a grandi linee i contenuti del prodotto insieme alla sua squadra. Si occupava principalmente del contenuto che sarebbe stato pubblicato sul giornale, teneva rapporti con istituzioni, politici e imprenditori. Da una ventina d’anni non è più così, a causa di una continua perdita di vendite in edicola.
Oggi i direttori devono guardare i bilanci, relazionarsi con manager e amministratori, ridisegnare gli organici e ridurli. Hanno dovuto gestire una crisi economica lunghissima a causa di una transizione troppo lenta all’interno del mondo dell’editoria.
Ci parli di questa transizione.
Quando si è passati dalla macchina per scrivere al computer lo si è fatto velocemente. La stragrande maggioranza dei lettori over 60 continua a comprare il giornale cartaceo. Infatti, i ricavi delle testate dipendono in parte maggioritaria dalla carta, dato che l’online non produce ancora delle somme considerevoli. Quindi non si può passare direttamente al digitale, ma i lettori che comprano in carta sono sempre meno per motivi anagrafici.
Il lavoro del direttore è diventato principalmente burocratico. Si salvano da questo tritacarne solo i direttori di bandiera, che ancora oggi riescono a svolgere compiti giornalistici, rispetto a quelli manageriali.
Indro Montanelli con la sua macchina per scrivere
Prevede la morte del giornalismo?
Sono convinto che del giornalismo non si potrà fare mai a meno. Le intuizioni che ha avuto Grillo di sostituire i giornali con i social è un’illusione perché sarà sempre indispensabile una figura dotata di una competenza professionale, che abbia un accesso alle fonti, che è in grado di parlare alle istituzioni, che segue le notizie e che ha una responsabilità civile e penale per quello che scrive.
Non morirà ma si trasformerà. Ad esempio, Cecilia Sala, che lavora con Chora Media, fa dei podcast splendidi sulla guerra in Ucraina che hanno centinaia di migliaia di ascoltatori.
Con questi nuovi strumenti come cambiano le aziende?
Non potranno più esserci le redazioni affollatissime di una volta con contratti onerosissimi, come nei tempi d’oro. E’ un mondo che va ripensato. Basti vedere il contratto Nazionale dei Giornalisti, che guarda ad un mondo di 50 anni fa.
Alcuni editori sono riusciti ad ottenere risultati importanti attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, come fatto da Chora Media o da Fanpage che sono aziende strutturate in maniera completamente diversa da quella tradizionale. La crisi verrà superata con una trasformazione. Molte testate moriranno, ma ne nasceranno altre più snelle e agili, nelle quali i giornalisti verranno affiancati da ingegneri e videomaker, che sanno come sfruttare il digitale.
Non capita spesso che un romanzo costringa il lettore a scendere così in profondità negli abissi dei sentimenti umani. Sándor Márai sembra esserci riuscito al di là dell’opinabile struttura del romanzo. Sono soprattutto l’amicizia e la passione ad essere indagati, a tratti vivisezionati, in queste poche pagine di rara intensità e da leggere tutte d’un fiato. Una scrittura dotata di forza travolgente in grado di mette il lettore con le spalle al muro a fare i conti con sé stesso, la sua vita e i suoi stessi sentimenti. Perché tutti i personaggi ci parlano di noi, dei nostri più nascosti e indicibili pensieri, dei recessi dell’anima e di tutte le vigliaccherie e le grandezze di cui siamo capaci. Senza sconti, senza scuse, senza imbrogli.
Sándor Márai (1900 -1989) scrittore e giornalista ungherese
L’autore è un eccellente detective che indaga a tutto campo dentro il lato oscuro del nostro animo, quell’ombra che ci segue ovunque e di cui non ci possiamo disfare. Nessuno è santo, nemmeno i santi – sembra suggerirci l’autore – e non sembra esserci posto per alcuna visione romantica. Tutto il romanzo infatti è intriso intimamente di dolore e sofferenza. Il dolore e la sofferenza dei sentimenti, del dovere, della responsabilità, del ruolo sociale e familiare da recitare.
Insomma il dolore e la sofferenza del nascere umani anche se si ha apparentemente “il favore degli Dei”. Perché non sembrano esistere il bene e il male come ce li hanno spiegati da piccoli: entità separate. Bene e male appaiono invece un tutt’uno, due facce della stessa medaglia, un groviglio inestricabile dove l’una sembra connaturata all’altra.
Non è un libro consigliabile per chi non vuole mettersi in discussione, per il romantico duro e puro o il sognatore che rifiuta la realtà. E bisogna essere consapevoli che da questa lettura se ne può uscire con le ossa rotte, se si accetta il patto di onestà con l’autore. Il titolo stesso è quanto mai appropriato. La brace è quanto rimane del fuoco delle passioni. È l’eterna lotta contro l’infelicità che troppo spesso genera altra infelicità, ma pur sempre un elemento essenziale della vita che la rende sempre degna di essere vissuta. Non esistono pagine che rilassano il lettore, la tensione rimane viva paragrafo per paragrafo in un costrutto romanzesco che può apparire geniale o deludente ai nostri gusti personali, ma pur sempre originale e sorprendente. L’opera infatti si riduce ad un monologo in un gioco letterario dove il personaggio protagonista recita tutti i ruoli.
Il gruppo di lettura si è polarizzato su due opinioni fortemente divergenti a partire proprio dalla struttura del romanzo, che per alcuni è sembrata quasi inaccettabile e per altri quanto mai azzeccata. Ma anche lo sviluppo dei temi propri del racconto e della profondità dei personaggi sono stati oggetto di accese e lunghe discussioni con rari punti di contatto (tra questi la bontà intrinseca della scrittura). Quasi come se si fossero letti due diversi romanzi.
L’autore, probabilmente, ne sarebbe rimasto soddisfatto.
Tre amiche e la passione comune per la moda: The bold type potrebbe essere la degna erede di Sex and the city, in chiave più moderna e impegnata. Anche in questo caso il titolo definisce un quadro generale della serie tv, in una duplice accezione: con l’aggettivo bold si indica una persona coraggiosa e fiduciosa, pronta a correre rischi; ma il bold è anche il termine con cui si indica, in ambito editoriale, lo stile grassetto, utilizzato per dare enfasi al testo.
Abbiamo già una visione d’insieme del carattere indipendente e combattivo delle protagoniste, e del loro luogo di lavoro. Lo show, infatti, segue le vicende sentimentali e professionali di Kate, Kat e Sutton, dipendenti della rivista femminile Scarlet.
Ritroviamo il tema centrale della moda, perché Scarlet tratta prevalentemente di moda, ma anche di femminilità e sessualità. Sex and the city è stata una serie tv rivoluzionaria alla fine degli anni ‘90, perché ha introdotto un format nuovo e fatto cadere il velo del pudore e dei tabù. The bold type parte con le stesse premesse, ma punta più sull’informazione e la sensibilizzazione. Inserisce nella narrazione tematiche sociali, culturali e religiose attuali e nuove, spesso non affrontate per mancanza di consapevolezza o coraggio. Sdogana questi argomenti delicati e li analizza con semplicità e delicatezza.
Arriviamo così al cuore dello show: tre amiche dai caratteri molto diversi, un luogo di lavoro che permette loro di essere se stesse, esprimere la propria personalità e far sentire la propria voce.
Una serie al femminile che esalta il girl power ma costruisce anche personaggi maschili forti e in linea con una visione egualitaria e femminista della società.
Un inno alla genuinità e all’autostima. In un contesto sociale sempre più pervaso da canoni sbagliati e irraggiungibili proposti dai social, l’unico modo per sopravvivere è essere se stessi e accettarsi in qualsiasi forma, nonostante il giudizio tossico e distorto che arriverà – sempre e comunque – dall’esterno. Ecco che The bold type pone l’accento sull’importanza di trovare un ambiente di lavoro non tossico, salvaguardare il proprio benessere psicofisico e coltivare i propri talenti.
Nell’arco di cinque stagioni vediamo le protagoniste crescere, fallire e ottenere successi. Una quotidianità condita di insicurezze e paure, rivincite e gioie condivise. Il tutto adornato da una manciata di paillettes e rivendicazioni sociali.
Il 6 dicembre 1926 Ragusa divenne capoluogo di provincia staccandosi da Siracusa. Per una piccola città meridionale l’essere diventata sede di prefettura rappresentava un salto di qualità di assoluto rilievo, a maggior ragione se questo accadeva all’improvviso, in maniera del tutto inaspettata e gratuita, deludendo le aspettative di città vicine che ritenevano avere più requisiti e storicamente più diritti.
Piazza San Giovanni
Tutto sembrava una grazia ricevuta, una festa. Negli anni successivi all’elevazione, Ragusa fu interessata da un notevole dinamismo di fabbrica per dotarla di quell’assetto urbanistico – fognature, acquedotti, case, uffici, scuole, sedi di rappresentanza – proprio di una città.
Con queste intenzioni nacque il Quartiere Littorio con Piazza Mussolini (poi Piazza dell’Impero ed infine Piazza della Libertà) a fare da centro geografico ad una serie di edifici indispensabili per il vivere comunitario e amministrativo: la Casa del Fascio, Torre del Littorio, Casa della Gioventù Italiana del Littorio, Casa del Mutilato e del Combattente, il Palazzo del Consiglio provinciale e delle Corporazioni, il Ponte Littorio.
Costruzione di Piazza Impero (oggi Piazza Libertà)
Nel giro di pochissimo tempo, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, fu edificato anche l’ospedale civile e il tubercolosario e poco dopo il carcere giudiziario, la stazione dei treni e il palazzo delle poste a completare una mappa di servizi per la nuova funzione di tenenza.
Si decise inoltre di dotare la città di una sede adeguata all’onorificenza avuta edificando la più pregevole testimonianza dell’epoca, il Palazzo del Governo. Del progetto venne incaricato l’architetto Ugo Tarchi. Il complesso architettonico risultò sin da subito imponente, fastoso e costoso.
Palazzo del Governo (oggi sede del Comune di Ragusa)
A palazzo ultimato, la decorazione venne affidata all’artista – a cui non mancarono abilità d’artigiano – Duilio Cambellotti. Obbligati i temi: la vittoria di Vittorio Veneto e la Marcia su Roma per il Salone d’Onore, le immagini e le attività del territorio ragusano per la Sala del Camino, i prodotti della terra per la Sala da Pranzo e le vedute di Ragusa Ibla e Ragusa Superiore con i monumenti più riconoscibili, tra gli altri la Cattedrale di San Giovanni resa col doppio campanile così come pensata in origine, il Duomo di San Giorgio, il Portale omonimo, la chiesa di Santa Maria delle Scale e quelle delle Santissime Anime del Purgatorio e dell’Ecce Homo.
Nel 1985 Leonardo Sciascia fece visita alla Prefettura di Ragusa; ad affascinarlo furono le tempere “fascistissime” di Cambellotti, scampate alla damnatio memoriae per la prudenza degli amministratori, che si erano limitati ad occultarle. La loro riscoperta fu l’occasione per un racconto alla Brancati e, insieme, una rivisitazione della storia del fascismo negli Iblei, osservato nella sua trasformazione da fatto di popolo a trionfo dell’élite.
Uno degli affreschi di Duilio Cabbellotti presenti al Palazzo del Governo (foto: Ragusa News)
Il volume che ne ricava, Invenzione di una Prefettura, uscirà due anni dopo per i tipi di Bompiani, con inserti fotografici d’epoca: la visita del re Vittorio Emanuele III di Savoia alle miniere d’asfalto di Ragusa, la prima visita di Mussolini, oltre che intense fotografie realizzate da Giuseppe Leone.
La calma, visibile in superficie, che questa parte della Sicilia ha vissuto, lontana dalle grandi rotte criminose che hanno afflitto il resto dell’isola in faide sanguinarie, per l’esclusione, almeno apparente, da certe oscure dinamiche mafiose, intrighi sovversivi o congiure mortali, seppure penetrate nel territorio con non poca ferocia.
Prima visita a Ragusa di Mussolini (foto: Istituto Luce)
Ragusa e la sua provincia hanno innescato nell’immaginario collettivo l’idea di essere così al riparo dai gioghi malavitosi da meritarsi, per improperio di poca lusinga, l’appellativo di “provincia babba” giacché – avrebbe scritto Bufalino con pungente ironia – “nel ragusano il numero dei morti ammazzati è vergognosamente basso rispetto a qualunque altro sito dell’Isola“.
Sulla mitografia della provincia “babba”, a voler significare bonaria, innocente, priva di malizia, si sofferma anche Sciascia cogliendo la contraddizione di senso che insiste nel definire “babbo” ciò che è riconosciuto essere tranquillo ed apprezzato.
“un numero di morti vergognosamente basso” ma tra questi ricordiamo l’assassinio del giornalista Giovanni Spampinato
Guardando a Vittoria, lo scrittore individua la linea di confine o il muro di Semiramide, non privo di crepe, in cui si arresta una Sicilia che alcune belluine espressioni di violenza vorrebbero ostile finanche spietata. Al di là di tale frontiera comincia, ci piace credere, un’altra Sicilia, una Sicilia diversa.
Rischio, una parola che sentiamo pronunciare quotidianamente. Il vocabolario Treccani gli attribuisce questo significato: “Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili”.
I rischi possono essere molteplici, sono intrinseci alla natura di tutte le nostre decisioni, possono essere previsti ed eventualmente gestiti, accettati o contrastati; gli esseri umani prendono decisioni e compiono azioni rischiose continuamente.
Il cambiamento climatico è un rischio che gli studiosi hanno previsto e che, nonostante la scienza ci fornisca gli strumenti per conoscerlo e gestirlo, purtroppo, continuiamo a sottovalutarlo. Durante l’ultimo incontro del World Economic Forum (WEF), come di consueto, è stata pubblicata la nuova edizione del Global risk report.
Tabella dei possibili dieci rischi globali che si susseguiranno nel breve e nel lungo periodo
Il WEF è una fondazione senza scopo di lucro che, dal 1974 ogni anno, riunisce a Davos (Svizzera) leader politici, teologi, ricercatori ed esponenti delle maggiori imprese europee e statunitensi per discutere, sotto l’egida della fondazione e dei suoi esperti, riguardo i problemi che affliggono il mondo.
Sono molti gli output che vengono prodotti, uno dei più significativi, a mio parere, è il report che raccoglie i principali rischi globali. Nello specifico, l’edizione del 2023 ha visto come protagonista i rischi collegati all’ambiente e al clima.
Nonostante la pandemia, le guerre, le carestie, l’inflazione e la crisi finanziaria, il report ha individuato cinque rischi legati all’ambiente nel breve periodo e sei nel lungo periodo, quattro dei quali nelle prime posizioni. Quando si affronta un argomento come quello dei cambiamenti climatici non si ha a che fare con qualcosa di complicato bensì con qualcosa di complesso.
Soldato ucraino (foto: Il Mulino)
Lanciare un razzo sulla luna, fare una torta, costruire una libreria, sono tutte attività complicate ma seguono un inter preciso, delle indicazioni che, se ben seguite, producono i risultati attesi.
Un problema complesso è tale perché trasversale, composto da diverse parti che agiscono indipendentemente le une dalle altre ma che si intrecciano in un groviglio di cause ed effetti difficilmente dominabile questo però non deve spaventare, occorre conoscere alcuni argomenti che compongono la complessità.
Quanto appena illustrato è il motivo che mi spinge a scrivere sul cambiamento climatico; nei prossimi articoli proverò ad illustravi le cause, le possibili soluzioni e le contorte dinamiche di quella che sarà la sfida più ardua per la nostra società.
Un anno prima che il passaggio della Abarth alla Fiat si concretizzasse, il 31 luglio del 1971, Carlo Abarth riuscì a togliersi un’ultima soddisfazione: quella di mettere le mani sull’Autobianchi 112 (marchio acquisito da Fiat nel 1967). Venne infatti allestito, nelle officine Abarth di Torino, un prototipo con il motore dell’Abarth 1000 berlina Gruppo 2, depotenziato a 107 cavalli, con distribuzione a testa radiale, e in grado di spingere la piccola 112 oltre la soglia dei 200 km/h. Seguirono altri due prototipi.
Il primo prototipo della A112 uscito dalle officine Abarth nel 1970
Decisamente meno estremo sarà invece il modello che la casa di Desio produrrà in serie: una versione sportiva della gamma, già in essere dal 1969, e rivolta perlopiù ad una clientela giovane e dinamica. Fu così che vide la luce, al Salone di Torino del 1971, la prima serie della piccola Autobianchi con la firma dello Scorpione. L’impegnativa mission era quella di rispondere al successo della Mini Cooper, la mitica concorrente britannica.
Design giovane e gradevole, trazione anteriore, motore trasversale, cambio a 4 rapporti corti, in principio fu solo rossa corsa con cofano anteriore, fasce laterali e fascia posteriore nero opaco. Di disegno inedito la calandra metallica, attraversata da una banda con due bocchette circolari e la scritta “Autobianchi Abarth”. Interamente cromati i paraurti, i cerchi fari e una modanatura laterale a livello dei sottoporta.
La prima serie caratterizzata dai fascioni neri laterali e posteriori e dai paraurti in metallo cromato, come i cerchi dei fari
Gli interni erano in similpelle nera, i sedili anteriori più avvolgenti avevano il poggiatesta integrato e la plancia, metallica, era arricchita da strumenti sportivi come il contagiri e altri tre piccoli strumenti supplementari disposti orizzontalmente: amperometro, manometro e termometro dell’olio. Un volante a tre razze in alluminio, con corona di pelle, completava l’arredo degli interni. Non erano invece previsti i cerchi in lega, nemmeno come optional. Dal 1972 verrà prodotta anche in versione monocromatica arancione salmone e grigio visone.
La plancia metallica della prima serie e alcuni particolari laterali
Il cuore sportivo, ovvero il motore, sotto le cure di Carlo Abarth, passò da 903 cc, della versione base, a 982 cc, mediante allungamento della corsa, nuovo disegno di albero, pistoni e bielle, rapporto di compressione aumentato e nuova testata in lega leggera con sedi valvolari riportate. L’alimentazione era assicurata da un carburatore doppio corpo dotato di un filtro d’aria speciale. La potenza massima fu portata a 58 hp (150 km/h la velocità massima). L’impianto di scarico era a doppio terminale e a fine serie fu aggiunto anche un opportuno radiatore dell’olio.
Costava non poco: un milione e trecentoventicinquemila lire. Più della 128 coupè e della rally, ma fu ugualmente un grande successo e prodotta in 4.641 esemplari: oggi la versione più rara e ambita dai collezionisti.
(Fonte: Ruoteclassiche)
Per la seconda serie, a partire dal 1973, venne aggiunto il servofreno e offerte nuove tinte monocolore esterne: beige e blu scuro “president” con interni misti in finta pelle e tessuto scozzese (in sola finta pelle solo quelle di color rosso). A richiesta si potevano avere i medesimi cerchi Cromodora CD57 in magnesio della Fiat 128 rally e il lunotto termico. Esteticamente le cromature vennero sostituite da plastiche nere, i fascioni neri sparirono, la calandra prodotta in plastica e nuovi paraurti in gomma nera di maggiori dimensioni sostituirono quelli in metallo cromato. Furono anche previsti nuovi sedili reclinabili con poggiatesta regolabili. Nel cruscotto i tre piccoli strumenti circolari vennero posti in verticale all’altezza della leva del cambio. 13.759 gli esemplari prodotti.
La seconda serie con gli interni misti (finta pelle – stoffa) e la piccola strumentazione in basso e verticale
La terza serie (la mia preferita) debutta nel gennaio 1975. La grande novità è l’ingresso nella gamma della versione 70 HP, spinta da un nuovo motore di 1050 cc. La velocità massima sale a 160 km/h. Esteticamente il nuovo modello è riconoscibile per le griglie maggiorate sui montanti posteriori e per la fanaleria (posteriore) con le luci di retromarcia integrate. Inoltre la nuova profilatura del vano posteriore permise l’omologazione per 5 posti. Diversi i colori offerti anche con tinte metallizzate (grigio, bronzo e azzurro). Il cofano in tinta nero opaco veniva fornito con le tinte più sportive (rosso corsa, verde pampa e blu Bahamas) accoppiati agli interni in finta pelle, per gli altri era misto. I piccoli strumenti circolari tornarono in posizione orizzontale nel cruscotto e un volante a due razze fu montato per la 70 HP. 1.000 di 58 HP e 29.000 di 70 HP gli esemplari prodotti.
La terza serie nel colore blu Bahamas con il cofano nero opaco e il volante a due razze. I piccoli strumenti circolari tornano orizzontali nel cruscotto
Con la quarta serie, nel 1978, arriva un restyling più marcato e soprattutto venne prevista una monoscocca denominata “Telaio B”, appositamente realizzata per il modello Abarth in previsione di un possibile aumento della potenza. La 70 HP, unica versione rimasta in listino, adesso sfoggia una nuova mascherina nera e il paraurti in resina includeva lo spoiler. Sul cofano anteriore spuntò una presa d’aria, mentre dietro vengono montati gruppi ottici di nuovo disegno. Il padiglione, alzato di 2 cm, riuscì ad offrire maggiore spazio all’interno dell’abitacolo, dove figurava una nuova plancia totalmente ristilizzata con la strumentazione di forma squadrata. La selleria in finta pelle beige con inserti centrali in velluto venne offerta in tre tonalità. Migliorati cambio e impianto frenante. Della simpatica “cinesina” (così chiamata dagli appassionati) ne vennero prodotte circa 26.000 esemplari.
La quarta serie (la “cinesina”) rinnovata nella calandra, nella fanaleria posteriore e negli interni, adesso con la strumentazione quadrata
Nell’agosto del 1979, a dieci anni esatti dalla presentazione del modello, l’Autobianchi lancia la quinta serie. Migliorato il confort, adesso la calandra nera incorpora le cornici dei proiettori ed è la stessa degli altri modelli. Inediti i gruppi ottici posteriori, avvolti da un fascione in plastica, anch’esso di colore nero, come i codolini dei passaruote. Quanto alla meccanica viene adottata l’accensione elettronica e, finalmente, il cambio a cinque rapporti. I cerchi in lega a richiesta sono soltanto i Cromodora CD63 in alluminio e gli interni misti tessuto-finta pelle (quest’ultima soltanto nera). Veniva offerta nelle tonalità monocolore rosso corsa, rosso attinia, blu Lancia, bianco Saratoga, amaranto ardenzia, nero, beige Marocco e grigio chiaro o scuro metallizzati. Circa 33.000 gli esemplari prodotti.
La quinta serie con la calandra nera che incorpora le cornici dei proiettori e gli inediti i gruppi ottici posteriori avvolti da un fascione in plastica
Sesta e settima serie (1982 – 1984), le serie finali, differiscono per pochissimi particolari. Nella sesta la selleria adotta lo stesso tessuto a quadretti della Lancia Delta e lievi ritocchi ai paraurti e fanaleria posteriore allungata. I cerchi in lega di alluminio, a richiesta, sono i Cromodora CD145. Ne vennero approntati 10.000 esemplari circa. Mentre con la settima (e ultima serie) era prevista un’ampia gamma di colori inedita e interni con tessuti dedicati. Diversi gli optional forniti, quali il tettuccio apribile in vetro, i vetri elettrici, le cinture rosse e si predispose anche il montaggio dei fendinebbia. Il portatarga posteriore venne spostato in basso sul fascione paracolpi e i fanali posteriori uniti da una grossa fascia catarifrangente posteriore recante scritta e logo “Abarth” serigrafati. Completarono il look delle strisce colorate sulle fiancate, l’antenna radio e i vetri bronzati di serie. A richiesta era possibile avere i cerchi in lega Cromodora CD145 chiamati “margherita”.
Il prezzo base aveva raggiunto i 10 milioni (sette volte e mezzo il prezzo di esordio). Venne prodotta in circa 5.200 esemplari.
La settima ed ultima serie con i rari cerchi in lega di alluminio chiamati “margherita” e la curiosa fascia catarifrangente posteriore che unisce i fari e reca la scritta e il logo “Abarth” serigrafati
La produzione complessiva delle A112 Abarth toccò i 117.351 esemplari. Un grande successo che centrò in pieno la mission iniziale di una sportiva compatta in grado di dominare il suo segmento per quasi un quindicennio. Fu sostituita dall’innovativa Y10 nel 1985, ma quella sarà un’altra storia da raccontare..
Jean-Luc Godard sosteneva nel suo “Il maschio e la femmina” (1966) che così come il filosofo, il regista dovesse muoversi controcorrente.
Nell’Italia del ‘70, furono numerosi i registi che si posero in direzione inversa e contraria, primo fra tutti quel Pier Paolo Pasolini che pagò a caro prezzo il proprio dissenso. Ma tra i nomi meno ricordati di quel cinema d’opposizione vi è quello di Carmelo Bene, regista per diletto o forse per disprezzo, che ebbe modo di lavorare con lo stesso Pasolini.
Carmelo Bene nei panni di Creonte in “Edipo Re” (1967), regia di P. P. Pasolini
A differenza del poeta di Casarsa, in Bene il discorso politico cede il passo ad una critica rivolta al mezzo audiovisivo stesso, sovvertendone le regole, stropicciandone i tempi e le modalità espressive.
Eppure, sta proprio in questa conflittualità l’originalità delle sue pellicole, tra le quali merita una maggiore attenzione quella di “Salomè“, del 1972. La trama del film è tratta dall’omonima trasposizione teatrale di Oscar Wilde, e si concentra sulla vicenda biblica della decapitazione del Battista.
La danza di Salomè ha affascinato molti artisti. Qui in una tavola di Benozzo Gozzoli
Quello che potrebbe sembrare un soggetto edificante in realtà si rivela un pretesto disorientante, tutto rivolto ad una società che non potrebbe più comprendere il martirio. Ed è così che Cristo si tramuta in un vampiro e dopodiché in un crocifisso che tenta inutilmente di inchiodarsi da solo alla croce.
La stessa decollazione del profeta viene solo evocata da un bruto che taglia con una sciabola un’anguria, una scena più volte riproposta. Ridondante quanto i dialoghi, ripetuti allo spasimo, salmodiati, balbettati, masticati. Sono limpide, invece, le parole di Giovanni, rivolte ad una Salomè calva, dalla pelle di alabastro, tutte in pugliese e ingiuriose.
Donyale Luna nei panni di Salomè di Carmelo Bene
Spicca la mollezza dell’Erode interpretato da Bene. Voglioso, debole, colto da una bulimia di vino e frutta. Salomè è il suo unico desiderio, la sua danza un tormento.
Egli la agogna, la supplica promettendo tutto quello che la fanciulla desideri. Purtroppo per lui, il prezzo della danza è carissimo, come può esserlo solo una testa mozzata. Nemmeno un effluvio di doni diversi e di scuse sapranno far desistere Salomè.
Immagine forte questa, che ridicolizza il potere che è vittima delle sue stesse promesse e della sua lascivia. Carmelo Bene scandalizza con una esplosione di colori e di corpi. Stordisce lo spettatore, lo lascia impietrito e sgomento di fronte ad un montaggio tagliato col machete, sovvertito, privo di consequenzialità. Il regista fa cinema, facendolo implodere dal suo interno, in una spinta iconoclasta.
Erode Antipa, interpetrato da Carmelo Bene
Non abbiate paura di scandalizzarvi. Non crediate che “Salomè” sia una mera provocazione. Come disse Pasolini: “Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati è un piacere. Chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista!”.
La contea di Modica comprende dodici comuni, che però nella contea propriamente detta, quella dei Cabrera e della corona spagnola, ebbero vicissitudini di aggregazione e disgregazione, di espropriazione e di restituzione, di pegnorazione e di vendita, per cui forse non c’è stato mai un tempo in cui si trovassero effettualmente riuniti. Più tardi, al tramonto della feudalità, trovarono riunione nell’amministrazione circondariale. Il circondario di Modica: e Modica ne era anche il centro geografico. I comuni sono quelli di Biscari, Chiaramonte Gulfi, Comiso, Giarratana, Ispica (fino al 1935 Spaccaforno), Monterosso Almo, Pozzallo, Ragusa, Santa Croce Camerina, Scicli, Vittoria. Gli elementi che li unificano, sicché ancora oggi si può parlare di una contea o circondario di Modica in accezione di diversità rispetto al resto della Sicilia, sono il dialetto, le colture agricole, l’architettura rurale e urbana, lo spirito associazionistico.
La Contea di Modica (l’enclave in giallo nel sud dell’Isola) nella Val di Noto
Ciascuno dei dodici comuni ha per caratteristica esuberanti centri storici e magnifiche cattedrali in gran parte frutto di una sistemazione urbanistica ed una rinascita architettonica occorsa all’indomani del terribile sisma che l’11 gennaio 1693 distrusse per intero il Val di Noto.
Arroccati su un monte, adagiati in fondo alla valle o con l’affaccio verso l’Africa, nei paesi iblei non si ha il tempo di distogliere lo sguardo dalle energiche capriole barocche di chiese e palazzi, un trionfo di pietra e di luce, che subito si rimane abbagliati dalla visione di impressionanti scorci di natura.
Sulla campagna ragusana, adornata da rurali tramezzi in pietra – i muri a secco – che cingono sentieri e strade, Sciascia insiste descrivendo l’organizzazione di autosussistenza di certi tipi di masserie qualificanti l’antica Contea, – oggi diventati agriturismi – gli allevamenti e le attività produttive, tratteggiando un mondo campestre lontano dai ritmi cittadini, dove a scandire il tempo erano l’alternarsi delle stagioni, le fioriture dei germogli, i tempi del raccolto e i rintocchi di isolate chiese di contrada, un mondo lontano intriso di forese ritualità.
Scorcio di campagna ragusana (2009), foto: Giorgio Leggio
In quanto all’architettura rurale, in cui si possono includere (e siamo nel paesaggio) quei muretti a secco che fanno suggestiva geometria – e crediamo si debbano più a una necessaria operazione di spetramento che a una gelosa segnalazione di confine della proprietà: e dovrebbero essere tutelati come parte integrante e caratteristica del paesaggio – e le case di villeggiatura che tra la fine del secolo scorso e il principio del nostro, con grande e vano dispendio, e specialmente nella campagna modicana, hanno incorporato le antiche masserie o le hanno sostituite, è da osservare che ubbidivano a un criterio di autosufficienza, di autarchia. A differenza della masseria di feudo nella Sicilia occidentale, la masseria della contea bastava a se stessa. […] Nelle masserie si allevavano cavalli, maiali, bovini, ovini, qualche capra, molto pollame.; c’erano i mulini ad acqua; si facevano i formaggi (famoso e inimitabile il caciocavallo; si filavano e tessevano lana, canapa e cotone; si lavorava, anche esornativamente, il legno: pali, collari per gli animali, ciotole, mestoli, cucchiai; si conservavano in insaccati e gelatine le carni del maiale; e miele e cera non mancavano, da alveari costruiti e stazionari come da alveari naturali ed errabondi […]: il celebrato miele ibleo, da cui in qualche parte della contea ancora si distilla un vino.”
Tipica masseria siciliana
Dolci alla ricotta, al cioccolato, al pistacchio, con cannella, mandorle o scorze d’arancia, per chi giunge negli Iblei a godere non è solo la vista, già meravigliata nell’osservare le complesse evoluzioni di statue indorate dal sole e puntute torri campanarie, vivaci manifestazioni di un’inclinazione per il capriccio e l’esagerazione che è voglia di vivere dopo la morte; o l’olfatto, inebriato dalla macchia mediterranea, profumata di rosmarino selvatico, cappero, lentisco e ginepro, dall’odore del mare, di un mare antico, incontenibile e pieno nell’avvicinarsi alla costa.
A gioire è anche il gusto poiché l’alta qualità dei prodotti che qui vedono la luce – dal miele già cantato da Virgilio e da Plinio il Vecchio, ai formaggi, il caciocavallo DOP e la provola ragusana, all’olio anch’esso DOP e i vini Vittoria e Eloro – ha trovato perfetta unione con l’eredità culinaria lasciata da secoli di dominazioni, tra tutte quella spagnola, la cui influenza si riflette ancora oggi sulle tavole dei siciliani, piatti semplici e pietanze talvolta curiose che hanno colpito positivamente Sciascia, già completamente conquistato – lo confessa egli stesso – dalla bontà del cioccolato di Modica.
L’antica disposizione del caciocavallo ragusano per la stagionatura
E per esempio: la cucina della contea – e non c’è differenza tra quella familiare e quella che le trattorie offrono: la sola parte della Sicilia in cui, come in Puglia e in Toscana, si è capito che bisogna, nelle trattorie, attenersi alla cucina locale – irresistibilmente richiama alla Spagna per il prevalervi dei piatti di legumi: ceci, fagioli, lenticchie, fave secche conditi con buon olio crudo (e le fave, a volte, anche con aceto e origano); e richiama anche a quella sobrietà che per Menèndez Pidal è “la qualità basilare del carattere spagnolo”. Sobria è la gente della contea. Altro richiamo, per restare alla gola, è quello del cioccolato di Modica a quello di Alicante (e non so se di altri paesi spagnoli): un cioccolato fondente di due tipi – alla vaniglia, alla cannella – da mangiare in tocchi o da sciogliere in tazza: di inarrivabile sapore, sicché a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archétipo, all’assoluto, e che il cioccolato altrove prodotto – sia pure il più celebrato – ne sia l’adulterazione, la corruzione. E qui sarebbe da fare un inventario della pasticceria modicana: le cedrate, le cotognate, i torroni, le cobaite: ma ci vorrebbe un descrittore di sapori della vocazione e sottigliezza di Magalotti nelle lettere sugli odori. Bisogna però particolarmente ricordare quei dolci fatti di pasta sottilissima e fragile a contenere un sapiente impasto di carne e cioccolato principalmente: un dolce nutrientissimo e di lunga conservazione, e si potrebbe dire un dolce da viaggio”.
Le mpanatidde, i dolci modicani ripieni di carne e cioccolato
Quella di Palazzo Montesano, a Chiaramonte Gulfi, è una mostra e insieme un museo, o meglio un’installazione postmoderna destinata a divenire permanente: la difficoltà a definirla sta non nei contenuti ma nel soggetto che li ha realizzati, l’artista. Che si chiama Sebastiano (per tutti Iano) Catania: E che si definisce artigiano, non artista. Ebanista, puntualizza. Cioè antepone alla creazione artistica il rapporto umano con le persone e la materia; e pertanto l’etica all’estetica.
A me piace definirlo poeta: uno che, non solo crea ma racconta.
Il poeta Catania, per oltre sessant’anni, ha creato e raccontato centinaia di storie (alcune le leggerete nell’allestimento) col suo personale “verso” ribadendo, a chi ha voglia di ascoltarlo, il suo rapporto con l’arte e con la materia oggetto della sua creazione, il legno.
Chiaramonte Gulfi, Palazzo Montesano: un angolo dell’allestimento Storie di legno dedicato al percorso artistico dell’ebanista Sebastiano Catania
E in questo percorso, allestito dal figlio Raffaele nel 2017 nel palazzo Montesano, sede di altri cinque musei, troviamo anche il racconto di quando a Chiaramonte c’erano decine e decine di botteghe artigiane (falegnami, fabbri, imbianchini-pittori, lattonieri, conciapelli e calzolai, putiari), presenze che animavano spazi dell’abitato e del vissuto quotidiano. In un rapporto di mutualità e cooperazione, mista a diffidente competizione, che faceva interagire uomini e utènsili – preziosi e rari in un’economia ancora elementare con preminenza della manualità – attraverso i cancelli o le porte finestrate dei dammusi casa e putia.
Non si buttava via niente: i circieddi del falegname o gli scampoli viaggiavano verso le altre botteghe, incrociando altri scarti o frammenti che esaudivano momentanei e precari assemblaggi e rattoppi; o le richieste di vicine e ragazzi (ricordate i carramatti, le spade, i fantasiosi giocattoli della nostra fanciullezza: da lì venivano, non dal Toys Market o da Amazon).
Sebastiano Catania al lavoro nella falegnameria di via Ciano. Foto di Tony Vasile (2013)
Un giorno il maestro Giovanni De Vita, la cui bottega era a due passi da quella di Catania, doveva spedire a un’importante mostra di Parigi un dipinto raffigurante San Paolo (oggi esposto nella Pinacoteca) e siccome parliamo di circa cinquant’anni fa, bisognava creare l’imballaggio adatto: la soluzione nella bottega e mastrìa dell’amico Iano Catania!
E non era un caso isolato. Poco prima era stata la volta del lattoniere, per il foglio di lamierino zincato su cui dipingere la Madonna di Gulfi destinata a un’edicola votiva del vicino cortile; e anche questa volta, oltre al lattoniere, era intervenuto il falegname per il telaio, il muratore scalpellino per azzizzare l’icona corrosa dal tempo e dalle sbandate dei carramatti, il ferraro per la grata di protezione, e quanti altri non so. Di certo so – me l’ha raccontato con ironia e compiacenza il maestro Catania – che il tutto, spesso, dedotte le spese vive era gratis et amore.
Foto di Tony Vasile (2013)
Il lattoniere, per esempio, era Saro Bentivegna, (bottega a metà via Corallo), altro personaggio casa e putia, fascinato dalla memoria e strenuo difensore dei frammenti e valori del tempo andato, e alcuni li conservava in un angolo della bottega, per chi aveva voglia di sentirne il racconto antico, condito dal ritmico battere del martello.
E c’erano pure il sarto, il ciabattino, il fotografo, il pingisanti…
La gran parte come i protagonisti dell’Antologia diSpoon River – non dissimili per percorsi di vita e tenace attaccamento a lavoro, famiglia e valori – dormono sulla collina. La polvere del tempo intrisa di memorie e vissuti si è in parte depositata nella vecchia bottega di Iano Catania.
Oggi, lui stesso ci invita (attraverso l’audace ed essenziale allestimento del figlio Raffaele a Palazzo Montesano) a sbirciare dentro la sua bottega tra attrezzi, scampoli di lavori, saggi e realizzazioni, per leggervi, non del tutto sopraffatte dalla polvere del tempo, le cento storie di questa antica e orgogliosa comunità intrisa di etica contadina e religioso attaccamento ai valori del lavoro e della famiglia. Buona visione!
Sebastiano Catania in un’istantanea di Giovanni Bellina. Copertina della monografia Il filo di Arianna (Dettagli, 2016)
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