5
(12)

Nel 2018 a Roman, in Romania, la prof.ssa Grazia Dormiente in occasione del Convegno sulla Letteratura della Grande Guerra, organizzato dell’Associazione internazionale dei critici letterari, scelse di presentare il progetto “Terra Matta” e don Vincenzo Rabito. Di seguito un articolo tratto proprio dal testo del suo intervento.

di Grazia Dormiente

“Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa (classe) 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per dacere ammanciare.”

2018, Roman. Il convegno sulla letteratura della grande guerra

Con tale incipit inizia l’avventura linguistica e letteraria del siciliano Vincenzo Rabito, il cui talento narrativo è confluito nel libro Terra matta, edito da Einaudi nel 2007, dopo la cura redazionale avviata dal 2003 dal toscano Luca Ricci e dalla palermitana Evelina Santangelo per dipanare l’innata narratività dell’autore fino ad accendere la feconda diffusione, da cui sono nati fortunati intrecci con film, teatro e progetti di coinvolgimento storico-antropologico.

Premessa necessaria per comprendere le motivazioni che hanno spinto il settantenne Vincenzo Rabito a raccontare la propria vita, impegnandosi per lunghi anni a scrivere su una vecchia Olivetti Lettera 22 le mille e ventisette pagine senza margini con un punto e virgola dopo ogni parola e legate con lo spago in quaderni numerati.

Se suo figlio Giovanni, alcuni anni dopo la morte del padre-autore, avvenuta nel 1981, non avesse deciso di inviare quelle pagine al Premio Pieve – Banca Toscana, non sapremmo nulla dell’eccezionalità documentaria narrata dal semianalfabeta chiaramontano, autentico cuntastorie, che dalla corposa memoria trae la sua scrittura convinto come è “se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare.”

Appropriata, perciò, si rivela la riflessione dello scrittore Andrea Camilleri sul memoriale di Vincenzo Rabito “cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa. Un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso”.

Il compianto Andrea Camilleri

Rabito ha affidato il racconto della sua vita ad un linguaggio naturale, che non è italiano e nemmeno siciliano, ma è diventato lingua capace di tracciare gli eventi principali della storia del Novecento: le due grandi guerre, l’avvento del fascismo, l’emigrazione.

All’eventografia canonica e datata egli erge l’argine di sangue e di carta che sostiene la seducente grammatica esistenziale della verità del vissuto, altalenante anche tra religione e bestemmia, nelle trincee della Grande Guerra:

“Recordo poi che era propia il ciorno di Natale, e propia quella notata si aveva presentato alle nostre posezione un soldato austrieco che parlava italiano, e forse era di Trieste, e disse che si voleva rentere come pricioniere, e così la sentenella non ci ha sparato. E io lo teneva in consegna. Propia quella ciornata era di dominica e il prete ci ha portato sotto li albere per farene sentire la messa, come tante domeniche. E così, ci ha venuto il pricioniere pure, alla messa.

Così, quanto il prete aveva fenito di dire la messa, e come tante volte repeteva che il Dio ni doveva dare la crazia di vincere questa sanquinosa querra e scacciare il nostro potente nimico, che come il pricioniere intese quella parola del prete, che «il Dio ni doveva fare la crazia di scacciare il propotente nimico», si ammesso a ridere e senza tremare ha detto: – Qualda che sono tutte li stesse li prete, che la domenica passata il nostro prete ci ha detto, quanto ci hanno portato alla messa, ci ha detto propia li stesse parole, che il Dio ci aveva a fare una crazia, che l’Austria doveva «scacciare il suo potente nemico», che ene l’Italia, e «vincere questa sanquinosa querra»… –

I ragazzi del ’99 alla grande guerra

E il triestino redeva, e non sapiammo perché redeva e ni pareva che era pazzo, e poi ni ha detto perché rideva e ha detto che forse ci sono 2 Patre Eterne, uno è in Italia, e uno ene in Austria, e non ci capeva niennte, e rideva e fece redere a tutte, che il prete si aveva compiato li coglione e ni ha detto: – Che ci l’ha portato a questo che va contra la relicione? Portatolo fuore della messa!”

Protagonista vera in questo “monumentale” patto biografico permane la scrittura, che qualcuno ha voluto definire rabitese, forte collante mescolato alla terra delle trincee e alle bestemmie dei soldati, popolato dalle peripezie della quotidiana arte di arrangiarsi e di sopravvivere.

La sintassi farraginosa trova il suo fascinoso fluire nell’oralità del “cuntu” siciliano in cui il Rabito eccelleva con la sua peculiare irruenza narrativa diffusa dal bagaglio culturale del mondo contadino del suo paese natale, che annovera tra i suoi studiosi Serafino Amabile Guastella narratore delle stagioni della vita del villano della ex Contea di Modica, da meritare l’appellativo di “ barone dei villani ”.

Serafino Amabile Guastella

Così si è dilatato il talento affabulatorio ossessivamente presente in Terra Matta che non era assimilabile alla letteratura popolare memorialistica, come ha sostenuto la storica Chiara Ottaviano ideatrice del Progetto “Terra Matta” e coproduttrice con l’istituto Luce-Cinecittà del premiato film documentario firmato dalla regista Costanza Quatriglio.

Chara Ottaviano e Costanza Quatriglio

Gli aspetti compositivi e letterari per l’argomento di nostro interesse chiamano in causa Dario Fo. Il Nobel che nel “Mistero Buffo” mutua la miracolosa forza espressiva della “Nascita del Giullare” dalla parità sulla nascita del poeta riferita dal Guastella appunto: “e Gesù Cristo gli pose le mani sul capo, gli impartì la benedizione divina, lo baciò sulle labbra e gli disse: or che sei divenuto poeta va, tuona, grida contro la prepotenza, e ti sarà resa giustizia. Il villano da quel giorno in poi compose così terribili satire…”.

Il giullare-poeta è sacro anche per Dario Fo, che ha dichiarato con l’onestà intellettuale propria dei grandi di aver riscritto il testo del Guastella, affidandolo all’artificio espressivo del grammelot, tipico delle giullarate.

Dario Fo in ‘Mistero Buffo’

Certamente Rabito, da autentico narratore, ha saputo forzare parole, espressioni e punteggiatura trasponendo la rituale oralità dei proverbi e l’enfasi gestuale nella sua autobiografia che restituisce i fulgori del tempo e della storia del Novecento, dilatando il suo sguardo alla verità del vissuto e del pensato.

Il suo punto di vista è quello di un ultimo, non di un vinto, che attraversa la storia individuale e collettiva con appassionata immersione nel fluire magmatico di verità spesso scomode ed ingrate.
La sua vasta Terra Matta, per quanto “travagliata”, seduce per la forza narrativa diventata mirabile nel declinare il prorompente lessico del massacro dei “Ragazzi del ‘99” nella prima guerra mondiale.

Vincenzo Rabito

E penzava che erimo tutte povere descraziate, picole soldate che non dormemmo mai sopra il letto e sempre dormiammo fuore, e butate piede piede, e tutte strapate e tutte piene di fanco e piene di priucchie, e specialmente d’inverno, che faceva molto freddo, e tanta fame che avemmo.” (pag. 391)

Vota questo articolo

Valutazione media 5 / 5. Conteggio voti 12

Write A Comment