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di Vincenzo Pitruzzello

Correva l’anno 1966, quando Adriano Celentano incideva “Il ragazzo della Via Gluck”, una canzone rivelatasi profetica per chi, come me, è cresciuto negli anni del boom economico. Dalle sue strofe, che nella mia giovinezza ascoltavo distrattamente, si potrebbero trarre molte riflessioni sulla forma delle città odierne e sul paesaggio ad esse circostante.

Un giovane Adriano Celentano

Per parlare di questi temi bisogna fare riferimento al “Piano Regolatore Generale”. Ma come si sviluppa esattamente? Nonostante questi argomenti non siano semplici, li reputo importanti per comprendere le trasformazioni che i nostri centri abitati hanno compiuto in questi anni.

Innanzitutto, per redigere un “Piano Regolatore” bisogna impiegare lo “Zoning”, uno strumento utilizzato per la pianificazione urbanistica, in vigore con dovute modifiche dal 1920. Sembrerebbe il titolo di un bel film d’azione e invece il termine inglese, che si traduce con “azzonamento o zonizzazione”, indica una “suddivisione di un ambito territoriale in zone”, cioè una distinzione di aree diverse ed organizzate, destinate alla residenza, all’industria ed alle attività produttive.

Volendo delineare un tracciato legislativo, per i lettori più esigenti, si può far risalire la sua entrata in vigore dalla Legge Ponte del 1967, nella quale si è provveduto all’individuazione di zone territoriali omogenee e ad una loro ripartizione. Dopodiché, l’anno successivo sono state definite le sei zone principali, che ancor’oggi si distinguono in: Zona A, riguardante le aree urbane di interesse storico; Zona B, per gli agglomerati parzialmente edificati; Zona C, destinata a nuovi complessi insediativi su aree libere; Zona D, rivolta ad insediamenti industriali; Zona E, riservata ad usi agricoli; Zona F, adibita ad impianti ed attrezzature di interesse generale.

Piano regolatore genera di Roma. Foto: Comune di Roma, urbanistica

Le buone premesse per una corretta e ordinata pianificazione del costruito c’erano tutte ma, come nelle favole, accade che sul più bello si presenti il lupo cattivo.

Mi riferisco proprio allo scempio protrattosi tra gli anni ’60 e ’70, dove la “cementificazione selvaggia” ha comportato lo sventramento di gran parte dei centri storici. O ancor peggio alle sopraelevazioni e agli ampliamenti avvenuti su edifici esistenti, definiti col curioso termine di “superfetazioni”, che non hanno fatto altro che alterare le sagome volumetriche precedenti, deturpando le proporzioni degli edifici di valore storico e lo skyline del paesaggio costruito.

Stesso problema si è verificato per le periferie, all’epoca aree verdi, divenute oggetto di speculazioni urbanistiche spesso incontrollate, che in alcuni casi hanno creato quartieri spettrali e degradati.
Dopo tanti propositi legislativi, così ampiamente disattesi, non ci resta che sperare in quella che, un paio di anni fa, è stata definita la “Riforma urbanistica per la Sicilia”.

Un esempio di cementificazione selvaggia: Palermo. Foto: The Vision

La Legge Regionale n.19, infatti, contempla vari principi tra i quali la riduzione del consumo del suolo, la sinergia tra i soggetti pubblici e privati e l’istituzione di un nuovo certificato verde fondato sui principi di rigenerazione e riqualificazione. Ciò dovrebbe portare ad una maggiore qualità architettonica dei nostri immobili, grazie ad interventi volti al miglioramento sismico e all’efficienza energetica. Ma tali idee dovranno sposarsi con le risorse sempre più povere dei nostri comuni.

Era il ‘66 e Celentano cantava “Là dove c’era l’erba ora c’è/ Una città”. Da allora tanti ragazzi, come quello della via Gluck, sono stati costretti a respirare il cemento mentre i loro centri cambiavano volto. In quei casi, seguire i piani regolatori generali sarebbe stata una fortuna. Ma alla profezia del Molleggiato c’è speranza. Chi vivrà, vedrà…

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