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di Letizia Dimartino

Mio figlio per la prima settimana mi ha portato due suoi amici milanesi ospiti. La mattina io “pretendevo” guardassero la vallata e le nuvole sulla cima dell’Etna lontana e i fiocchi di nebbia sugli Iblei celesti. Poi mangiavano al bar cannoli o brioche con gelato o torta Savoia e andavano in campagna subito dopo e assistevano ai lavori. Portavano magliette a mezze maniche e ogni tanto gli veniva sonno per la tanta aria presa. A pranzo gli facevo trovare gli anellini con le melanzane e la salsiccia nostra e i ravioli di ricotta e il sole inondava la tavola e mio marito parlava troppo di storia e dovevo interromperlo e lui mi guardava feroce. E dopo aggiustavano con mio figlio tutto ciò che non funziona in casa: tubi e rubinetti o fili elettrici e filtri di lavastoviglie.

E uscivano per salire sul campanile della cattedrale barocca, amore grande di mio figlio sin dai suoi primi anni di vita, e la sera si faceva prima rosa sulla città sottostante e la pietra si addolciva nel suo grigio monotono. La cena era tipica, il vino appena stappato, io ridevo, mio marito a tratti si incavolava, mio figlio ci faceva dimenticare tutto, i fichi d’india rubino, le mandorle tostate, la ricotta con la cannella. Mi veniva una stanchezza molle, il loro parlare nel milanese elegante, le voci mai alte, la loro città nordica da sempre amata da me. E andavo in camera più serena, i loro racconti, e quelli nostri. Mio figlio con i capelli mai pettinati. La felpa e la barba lunghissima e nera nera. Buonanotte, dicevo. E spegnevo la luce.

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