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di Giuseppe Cultrera

Cinquant’anni fa, nell’estate del 1971, la Rizzoli pubblicava il romanzo “Fantozzi”.
Autore ne era l’attore Paolo Villaggio, già noto al pubblico televisivo come Fracchia, archetipo e sosia del ragionier Fantozzi: al quale avrebbe dato voce e volto in una fortunata serie di trasposizioni cinematografiche.

Le strampalate vicende quotidiane dell’impiegato Fantozzi, tanto banalmente comuni quanto “tragicamente” surreali, assursero a metafora dell’italiano piccolo borghese, quello per intenderci della Milano da bere, della vacanza di massa, del consumismo sfrenato, dell’aspirazione al posto fisso. Abbiamo riso, fino a slogarci le mascelle, dell’impacciato, tartassato, supersfortunato Fantozzi.Fantozzi c’est moi

Leggere, o rileggere, quel libro è un tuffo nel nostro passato, ma è anche un percorso maieutico: se, come Flaubert, Villaggio può esclamare “Fantozzi c’est moi!” noi al pari possiamo dire che Fantozzi è la vita socio-culturale del secondo novecento; e che quello di Villaggio non è solo un pamphlet ridanciano ma un prodotto terapeutico. Letteratura contemporanea di buona fattura.Fantozzi c’est moi

Il signor Villaggio ha preferito declinare la sua lectio magistralis, attraverso le goffe movenze e la sintassi azzoppata del suo personaggio timido e impacciato. Invitandoci magari a fare un po’ di sano revisionismo su alcuni miti e simboli di quel tempo (che per tanti di noi è anche il nostro), a cominciare dalle tante “corazzate Potëmkin” da affondare con una pernacchia o semplicemente relegare nell’oblio.Fantozzi c’est moi

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