di Giuseppe Cultrera
– Farò l’archeologo! – annunciai in famiglia quando dovevo iscrivermi all’università. I miei non capivano. Nessuno in famiglia aveva mai fatto una professione simile. La nonna paterna diceva che la fortuna dei Di Vita l’avevano fatta tre generazioni di notai. Fra i Gafà non c’era stato mai un professore.
Antonino Di Vita (Chiaramonte Gulfi 19 ottobre 1926 – Roma 22 ottobre 2011) divenne archeologo e professore. Uno dei maggiori archeologi del novecento e un ottimo docente universitario; accademico dei Lincei, Preside e Rettore dell’Università di Macerata, Direttore della prestigiosa Scuola Archeologica Italiana di Atene, Soprintendente a Roma, Firenze e Siracusa. Con molte e pregevoli pubblicazioni, riconoscimenti e onorificenze.
Una vita eccezionale e intensamente vissuta. Ma del professore – quanti lo conobbero, lo incontrarono, lo amarono – l’aspetto che più ricordano è il tratto umano e la grande capacità comunicativa mista ad affabile disponibilità.
Oggi, sono 10 anni dalla scomparsa. Ci manca il lucido studioso e il dinamico ricercatore: ma molto più l’uomo. Quello che questo brano autobiografico rende più struggentemente empatico.
Quante volte, guardando le stelle nel deserto della Libia, camminando negli altopiani senza fine del sud algerino o percorrendo le strade impervie di Creta, sono tornato col pensiero alle mie prime esperienze di ‘archeologo da campo’ che avevano come scenario i luoghi dove sono nato e dove affondano le mie radici familiari. Luoghi e momenti magici, quelli. Quando, oltre alla soddisfazione che si prova ad aprire il grande libro della terra, a trovare reperti e tracce concrete di esistenze lontane, ho incominciato ad intendere il significato di ciò che si scava. Accadeva decenni fa ma l’eco di quei brividi non mi ha mai abbandonato.
Mi rivedo nel tardo pomeriggio di uno dei giorni in cui lavoravo alla necropoli di Castiglione, nel ragusano. Era l’aprile del 1951 e facevo parte di un’équipe dell’Università di Palermo. Avevo già preso la laurea in Lettere e la specializzazione in Archeologia. La luce del tramonto era intensa, rossastra. Una soffiata ci aveva segnalato che nella bottega di un ciabattino di Comiso erano stati visti dei reperti interessanti, freschi di scavo e provenienti appunto da quel sito. Eravamo in pochi, tecnici e giovani ricercatori. Una grotticella funeraria assolutamente inviolata ci si parò davanti. Spostai il masso che la chiudeva e vi entrai per primo. La curiosità mi faceva trattenere il fiato. Il sole infilava una lingua di luce discreta nella tomba. Che era di dimensioni ridotte. Adatta alla personcina che conteneva, una bambina di 6-7 anni il cui scheletro era stato conservato quasi intatto dal calcare per più di 25 secoli.
Come se tutto quel numero infinito di anni non fosse passato, la scena della deposizione del giovane corpo mi si srotolò sotto gli occhi vivida, in un lampeggiare di dettagli minuti. Nella solitudine, e nel silenzio assordante di quel pomeriggio, vidi i genitori della bimba mentre la portavano nel sudario. E toccai con mano la loro disperazione, il loro amore.
All’anulare della mano sinistra avevano messo un anellino di bronzo, povero ornamento dei pochi anni vissuti dalla piccola. Sulla coscia sinistra avevano deposto un fuso, certo coperto di lana, a testimonianza di una femminilità non raggiunta sulla terra ma che forse speravano la figlia raggiungesse nell’al di là. Presso l’ingresso avevano lasciato una grossa lucerna piena d’olio, perché alla loro creatura non mancasse la luce nella nuova casa dell’eternità. Fu come se, per un istante, essi che uscivano e io che entravo ci fossimo incontrati. Ero commosso. Presi rapido una decisione. Potevo farlo e lo feci. Impedii che altri entrassero. Rimisi al suo posto il masso che chiudeva la tomba lasciando che la piccola continuasse a dormire il suo sonno eterno. Certo, perdevamo qualche elemento utile per sapere quale morbo l’aveva fatto morire, non avremmo acquisito qualche dato paleonutrizionale. Ma si trattava di poca cosa rispetto allo sconvolgere quell’ordinato mucchio di ossa e portarlo in laboratorio. La scienza non avrebbe sofferto molto, i suoi genitori molto di più se avessi fatto il mio dovere fino in fondo. (L. Madeo, I racconti del Professore, Iacobelli, 2013; pagina 13).

Link all’articolo di Giuseppe Cultrera: Nino Di Vita, l’uomo e l’archeologo
4 Comments
Commovente!
Il mio professore! un gran bell’articolo. Grazie!
Un grande Maestro.
Davvero commovente e bellissimo. Lo vedo ancora in una bella giornata di sole leptitana venire verso di me lungo la via Colonnata sorridendomi. Indimenticabile!