di Giuseppe Cultrera
Per la sua Storia di Sicilia, nella prima metà del cinquecento, Tommaso Fazello, dotto frate domenicano, compie una lunga e accurata ricognizione del territorio siciliano. Pertanto la sua trattazione storica è anche un interessante documento dello stato di alcune piccole e poco note città dell’isola.

Per Chiaramonte abbiamo due interessanti testimonianze: che la città medievale arroccata sulla collina avesse come quinta orientale una catena montuosa spesso innevata e che i resti della piccola città di Gulfi, nella valle sottostante, fossero ancora visibili.
Non più di otto miglia da Ragusa c’è Chiaromonte, centro fortificato fondato su colline impervie e scoscese da Manfredi Chiaramonte, una volta detto Gulfi, in una località più bassa. I suoi resti ed anche gli edifici sacri distrutti giacciono lì davanti agli occhi.

Sono in gran parte i resti delle chiese medievali di San Ippolito, Sant’Elena e San Lorenzo (di recente scoperti durante i lavori di allargamento della strada comunale di Gulfi, interrati nuovamente dopo il rilievo). Da questa chiesa sembra provenire il fonte battesimale in pietra lavica, oggi custodito all’ingresso del Santuario.

Il Santuario (Santa Maria La Vetere) resta però l’unica testimonianza esistente. Nella sua struttura è possibile leggere la stratificazione di almeno tre momenti costruttivi: uno alto medievale, uno rinascimentale e, infine, quello tardo barocco che tutt’oggi la contraddistingue. La transizione dalla prima alla terza fase è stata rilevata nei lavori di restauro dell’abside e della pavimentazione. La chiesa era leggermente più corta e più alta; i resti delle fondazioni e quelli delle sculture sommitali dei pilastri e del cornicione sono ancora esistenti, i primi sotto la nuova pavimentazione, i secondi nel sottotetto.

Le rovine delle chiese di San Nicola, San Ippolito e Sant’Elena, assieme ai resti di alcuni edifici pubblici e privati – che il Fazello aveva visto e di cui fa cenno nella Storia di Sicilia – sono totalmente scomparsi. Come? Ce lo spiega Raffaele Ventura nella sua Storia critica di Chiaramonte: tra metà e fine Ottocento fu operata un’intensa bonifica dei terreni di contrada Gulfi ricoperti di ruderi e rottami “già al presente scomparse, perché è tanta la premura della loro ricerca per farne coccio pesto che nel solo 1886 in una chiusa del Piano del Conte, per più di due mesi visse una numerosa famiglia raccogliendole dalla superficie. Ne è testimone tutto il paese. Le pietre piccole ivi sono in più mucchi; come molte per brecciame nelle strade a ruota” (in: Il canto di Dafni, pagina 46).

E neppure la neve, adesso, ricopre le montagne soprastanti Chiaramonte. Sono cambiati i cicli climatici. Sopravvivono, però, testimoni eloquenti di quel tempo, le numerose Neviere che quella neve raccolsero e conservarono per le torridi estati.
La Storia di Fazello resta ancora un’interessante lettura – specie nella moderna traduzione di Antonio De Rosalia e Gianfranco Nuzzo (1990) – per sondare quest’isola meravigliosa, crogiuolo di popoli e civiltà.
Banner: illustrazione di Raffaele Catania.
1 Comment
L’articolo mi piace, ma ritengo inesatte le notizie date dal Fazello quando parla delle rovine di Gufi. A distanza di tre secoli, nel 1550, Tommaso Fazello annoterà lo stato di abbandono delle chiese e dell’abitato: “…vestigia ac aedes quoque sacrae dirute ab oculus jacent”. Ma le cose stavano realmente così al punto da chiamare Gulfi “vetus oppidulum” Cioè, “vecchio paesello in rovina”, insignificante, secondo la terminologia usata da Vito Amico? I dati sembrano piuttosto attestare l’esistenza in zona d’una economia fiorente. In realtà Gulfi mantenne una sua specifica caratterizzazione come luogo privilegiato del culto mariano e, in corrispondenza di ciò, come luogo di richiamo religioso, robusta identità sua, attestata ancora oggi.