di Giuseppe Barone
La tradizionale festività di San Pietro compatrono di Modica veniva celebrata con grande solennità e concorso di popolo già nel ‘600, quando erano vivi i contrasti con i devoti di San Giorgio sulle preminenze delle due chiese e sulla contestata matricità. Nella raccolta giovanile di poesie di Tommaso Campailla, “I Vagiti della penna” (manoscritto inedito conservato nella Biblioteca comunale di Palermo) si possono leggere quattro sonetti dedicati all’Apostolo, che gettano un nuovo fascio di luce sulla ricca cerimonialità barocca nella capitale della Contea. I componimenti poetici sono databili tra il 1689 e il 1692, prima del terribile sisma che avrebbe distrutto il Val di Noto, e rappresentano una testimonianza eccezionale sui caratteri originali del culto modicano del santo.

Nel primo sonetto Campailla sviluppa un fascinoso paragone tra Ercole “fondatore” e San Pietro “protettore” della città. Nel XVII secolo era ancora accreditata l’idea leggendaria che l’eroe greco avesse dato vita in Sicilia a tre paesi col nome di Mozia: il primo presso capo Lilibeo, il secondo non lontano da Agrigento e il terzo nella cuspide sudorientale.
Già nella “Descriptio” di Placido Carrafa (1657) le origini di Modica sono fatte risalire alla “Mozia mediterranea”, e il ritrovamento nel 1960 della statuetta dell’Ercole di Cafeo ha dato ulteriore linfa a questa “traditio”.

Campailla utilizza ampiamente questo “mito di fondazione” accostando le fatiche pagane di Eracle alle fatiche cristiane di Pietro, entrambi “glorie eccelse” che dimostrano le vetuste origini della città. La comparazione si gioca sull’analogia della fama “marittima” dei due personaggi e sul contrasto tra “clava” e “pietra”, tra Inferno e Paradiso:
Mozia esulta alle glorie. Ercol maggiore
dell’Ercol tuo primier di merti, è grave
Quel d’Argo, ei della fè vantar la nave;
Quel ti fu Fondatore, ei Protettore.Pietro il sovrano è questi, egli non pave
dell’idre eresiarche empio furore,
Quell’hebbe in mar, quest’hebbe in mare honore,
Quegli vantò la clave, et ei la chiave.Quei fu polo, ei fu pietra: il moto alterno
ha quello delle sfere in dorso assiso;
Ei sostien della Chiesa il Ciel superno.Solo di vario in loro esser ravviso
Quegli con la clava aprì l’Inferno,
Egli aprì con la chiave il Paradiso.

Nel secondo sonetto al martire Apostolo sono riconosciute le proprietà di molte gemme: la durezza del diamante, la lucentezza dello zaffiro, lo splendore del rubino; ma nessuna di queste gemme ha la consistenza e la forza della pietra, che racchiude la purezza e il valore della fede cristiana:
“Pietro pietra tu sei
e più che in altra pietra in te si vede
Pietra di paragon, che sol poteo
provarsi in pietra tal l’Or della Fede».

Nel terzo componimento l’Apostolo viene ancora esaltato come “mistico lince”, “lume veggente” e “di Cristo coronato Erede”, con una rutilante allegoria di retoriche visioni “secentiste”, che tuttavia restituisce intatto il clima di sacra devozionalità . Soprattutto nell’ultimo sonetto Campailla ci offre una straordinaria descrizione del “festino” barocco in onore di S. Pietro: nella Piazza Maggiore (oggi piazza Municipio) il “glorioso Trionfo” si svolge alla presenza dei simulacri di tutti i santi venerati in città ed ha il suo momento più spettacolare quando l'”ingegniero” don Michele Agosta con “meccanico apparecchio” fa uscire miracolosi zampilli d’acqua multicolorata dalla grande chiave argentata dell’Apostolo.
Come nel caso della “Madonna vasa vasa”, il cui bacio al Cristo risorto risulta documentato grazie alla “macchina” della Madonna semovente costruita dall’artigiano Pietro Baldanza nel 1645, anche la storica processione di San Pietro ha i suoi effetti scenografici che servivano ad alimentare la religiosità popolare. Le due terzine finali del sonetto sono esemplari al riguardo:
Qui zampillar di pure linfe, e chiare
del Vice Dio, cui presta fuoco il zelo,
Vena d’ ondoso humor la chiave appare.La chiave, ch’apre il Ciel, liquido gelo,
Sgorga d’ acqua il Rivol, sol per mostrare,
Che all’acque del Battesmo apresi il Cielo.

Da oltre un secolo abituati alla classica processione della statua lignea di San Pietro, capolavoro in legno di quercia realizzato nel 1893 dallo scultore palermitano Benedetto Civiletti, noi contemporanei abbiamo smarrito il gusto e il significato delle antiche cerimonie religiose e del loro impatto profondo sulla mentalità collettiva.
Da oltre mezzo secolo condizionati dalla rigida fissità dell’attuale simulacro, pur ricco di espressività “verista”, abbiamo quasi dimenticato il lungo corteo dei “santoni” col gigantesco San Cristoforo che si snodava lungo il Salone con i palazzi patrizi illuminati. I versi inediti di Tommaso Campailla aprono nuovi spiragli sull’antropologia religiosa degli Iblei e confermano l’importanza della ricerca storica per la valorizzazione del nostro patrimonio culturale.
1 Comment
Un lavoro estremamente interessante che offre preziosi contributi anche in merito alle leggendarie origini della città. Quanto all’opera del Carrafa a me risulta la data del 1653 . Può essere? Mi pare opportuno riferire la leggenda, dando ai non addetti ai lavori elementi di chiarificazione sulla Mothia mediterranea. Il racconto, tramandato fino ai primi dell’Ottocento tant’è che Modica nelle cronache e nei documenti veniva chiamata la “Città di Ercole”, ha come riferimento la decima fatica. Dopo aver catturato l’eroe, in Spagna, i buoi rossi del gigante Gerione, li condusse in Italia come trofeo a testimonianza dell’impresa. Ma in Sicilia gli vennero rubati e fu la bella Motia a farglieli ritrovare. Sicché, per gratitudine fondò tre città aventi il nome di lei: la Mozia di Capo Lilibeo, un’altra vicino ad Agrigento e la terza Modica, detta Mozia mediterranea. Le coincidenze – si sa – non finiscono di sorprendere. In contrada “Cafeo”, nel 1967, fu rinvenuta una pregevole statuetta bronzea, oggi datata alla fine del V secolo. L’accoglie il Museo Civico di Modica “Franco Libero Belgiorno”. Questa la rappresentazione: nudo, con la mano sinistra regge l’arco, mentre la destra probabilmente poggiava su una clava. Il copricapo è di foggia leonina, le cui zampe posteriori sono annodate al petto.