di Giuseppe Cultrera
Non ci sono parole o gesti d’amore per lenire il dolore straripato per un’improvvisa scomparsa. E non ce ne saranno, purtroppo, quando il tempo dilaterà la perdita.
Attoniti e spauriti costruiremo argini di gesti e parole. Già dette e scritte, identiche, dalla notte dei tempi.
Come quelle incise, dall’afflitto genitore di due millenni fa, sulla lapide sepolcrale del figlio fanciullo (oggi visibile al museo del Castello Ursino di Catania).
Ogni cosa che nasce
sulla terra
e nel cielo sconfinato
nasce per te, o Morte.
All’improvviso
m’hai rubato il mio bambino!
Ma che bisogno avevi?
Forse che,
se diventato vecchio,
non era sempre tuo?
L’approccio colloquiale con la morte di questo nostro antenato (l‘epigrafe proviene dall’area della Sicilia sudorientale) ci lascia stupiti, per la modernità. C’è la sorella morte di S. Francesco, l’inquietum est cor nostrum di Sant’Agostino, la partita a scacchi tra il cavaliere e la morte in Ingmar Bergman, l’esistenzialismo e le sue inquietudini.
Non trova ragioni che rendano meno lieve il dolore, ma apre un varco.
La traduzione dell’epigrafe paleocristiana è dal prof. Vincenzo Giannone (in: Crònos n.ro 21, Ragusa 2004).
Banner: J. E. Millais, Ofelia, 1851 (Tate Britain)
Immagine nel testo: Fotogramma da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957)