…quale è il diritto che le generazioni presenti possiedono sulle città da esse ricevute dalle generazioni passate? la risposta, è chiaro, non può essere che questa: è un diritto di usare, migliorandolo e non distruggendolo o dilapidandolo, un patrimonio visibile e invisibile, reale ed ideale, ad esse consegnato dalle generazioni passate e destinato ad essere trasmesso -accresciuto e migliorato- alle generazioni future. usare, migliorare e ritrasmettere la casa comune! si tratta di una eredità fedecommissaria, direbbero i giuristi romani: le generazioni presenti ne sono gli eredi fiduciari; quelle venture, gli eredi fedecommissari.
Giorgio La Pira (1955)

di Grazia Dormiente
Nella ricorrenza del 120 anniversario della nascita del Nobel modicano Salvatore Quasimodo (1901/1968) a noi sembra attinente soffermarci sul pozzallese Giorgio La Pira che con il poeta operaio dei sogni condivise la formazione culturale nella mediterranea Messina, travolta dal terremoto del 1908, avviando l’amicizia che durò l’intero arco della loro vita come documenta il rapporto epistolare tra i due grandi figli della terra iblea.
Il Carteggio La Pira- Quasimodo copre gli anni 1921-1964 con la massima concentrazione di missive nel decennio 1922-1932, periodo cruciale per le svolte esistenziali (il difficile periodo romano di Quasimodo 1920-26, la conquista travagliata della fede di La Pira) e per gli eventi storici, (la presa al potere di Mussolini, la crisi del Parlamento…) che hanno inciso profondamente nel processo di formazione dei due interlocutori.

Al binomio Pozzallo – Giorgio La Pira intendiamo ancorare le nostre riflessioni, poiché la città natale risuona come un incipit fecondo ed ineludibile, non solo per i dati anagrafici e battesimali, ma per i legami a una terra storicamente segnata dai suoi “cavalieri delle onde”, metaforica referenza del “navigatore” che intuì e tracciò le rotte salvifiche della pace e dell’unità dei popoli nel tumultuoso mare della storia.
Da pozzallese, da siciliano, da fiorentino e da mediterraneo egli “sentiva nel sangue il senso della storia plurimillenaria, la Sicilia, la Roma antica con il suo diritto, ma soprattutto il Mediterraneo come mare di civiltà” (A. Silvestrini,1993).
Tra la diffidenza dei più, nonostante il fascino esercitato dalla sua personalità, inaugurava nel 1958 il primo dei “Colloqui Mediterranei” per forzare, con l’autenticità del suo credo, l’unità dei popoli delle tre religioni del libro, anticipando i tempi di un’attesa lacerante: “cosa aspettano cristiani, musulmani ed ebrei a sedersi al medesimo tavolo per riflettere insieme sul dramma immensamente grave e rischioso della storia?” Profeticamente egli interpretava i segni profondi del destino dei popoli e non risparmiava energie spirituali e fisiche all’inevitabile scelta del dialogo per comporre i conflitti, sia pure drammatici e sanguinosi dell’umanità.
È ancora di matrice siciliana l’attaccamento di La Pira alla città natia e a quella della sua formazione culturale, come è ampiamente documentato dai colloqui epistolari intessuti con i familiari e con gli amici di Pozzallo e di Messina.
Tale corrispondenza è di notevole interesse per interpretare i segni di appartenenza del “sindaco santo” di adozione fiorentina alla terra sicula, tesaurizzata nel suo paesaggio interiore, e siccome nulla avviene a caso- così asseriva Giorgio La Pira – non è casuale che questo “uomo della speranza in più” sia nato a Pozzallo, sulle sponde del mitico e prodigioso mare che custodisce tante odissee.

La lapide murata nel prospetto della casa natale in Via Giulia n.8, con semplicità, ricorda: “qui nacque (9 gennaio 1904) Giorgio La Pira cittadino del mondo” definizione speculare alla visione lapiriana, poiché “la città è il mondo”.
Le città, infatti “restano come libri vivi della storia e della civiltà umana: destinati alla formazione spirituale e materiale delle generazioni venture”. Perciò Pozzallo, emblema lapiriano delle città piccole e grandi, non può sottrarsi al compito storico-cristiano, conferitole da uno dei suoi più illustri figli: “terrazza mediterranea” di popoli e nazioni.
Non alle barche d’Arno, ma, nel grave
silenzio di Palazzo Vecchio, alle libere
vele di Camarina antica o al vivo
azzurro della tua Pozzallo, Giorgio
io pensavo. E il solitario ampio
carrubo, sì prodigo d’ombra agli Avi
tuoi, era per me, in quel giorno, più solenne
dello splendore d’arte che circonda
or te operoso e la Città del Fiore…

Sono i versi iniziali della poesia dedicata a La Pira e composta nel 1953 in occasione del Convegno fiorentino “Preghiera e Poesia” dal poeta ragusano Luciano Nicastro, conterraneo ed amico di La Pira sin dagli anni delle emozioni letterarie messinesi. La dolce invasività dei luoghi della memoria ha sollecitato alcune nostre riflessioni sull’iniziale biografia lapiriana, trascorsa tra Pozzallo e Messina. Le due città siciliane di remota mediterraneità: città costiere, città d’approdi, città aperte alla circolazione d’idee e di merci, città in dialogo con il plurimo idioma del mare, città attraversate da flussi di popoli e dalle loro storiche mozioni.

La poesia, che ha il dono d’inverare le cose, ha restituito barche e vele, fiume e mare, pietre ed albero al loro orizzonte storico: veleggiare nel mare del tempo dalle antiche rotte della greca Camarina fino alla marinara Pozzallo, città natale di La Pira, senza dimenticare le vie mercantili del carrubo, monumento arboreo della campagna iblea, dolcemente protesa con i suoi terrazzati e solari litorali sul Mediterraneo. Dalla passionale evocazione del Nicastro affiora “vivo ed azzurro” il protagonismo del mare, che continua a tessere la tela della storia di Pozzallo.

D’altra parte la città di Pozzallo è profondamente legata alle stagioni storiche del Mediterraneo: i segni del suo essere porta a mare del sud-est siciliano rinviano ai tempi secolari in cui essa fu “Caricatojo” granario dell’antica e potente Contea di Modica (1296-1816). Solo nel cinquecento la Torre Cabrera, monumento e simbolo della città, acquistò la funzione di “fortezza” rispetto alla configurazione di Palazzo-Torre, che nel secolo precedente i Cabrera, Conti di Modica, le avevano assegnato come nucleo di un centro marittimo in un Mediterraneo ancora non solcato dai grandi scontri di civiltà.

Nella seconda metà del Cinquecento e per tutto il Seicento il mare nostrum non era più un mare che unisce ma un mare di conflitti in cui si delineavano la guerra di corsa, la pirateria e gli attacchi predatori sulle coste siciliane e sul litorale ibleo.
Solo con la ricostruzione delle strutture portuali, fortemente danneggiate e compromesse dal rovinoso terremoto del 1693, lo scalo di Pozzallo cominciò ad assumere figura di casale: nel Settecento fu costruita la chiesa di S. Maria di Portosalvo, furono potenziati i magazzini e si avviò la stagione economica legata ad un’intraprendente borghesia agraria ed agli esponenti della marineria locale, che furono i veri protagonisti della sua autonomia comunale (1829).

Straordinarie sono le fonti archivistiche sul traffico mercantile dell’ex borgata di Modica, che dal secondo Ottocento fino alla prima metà del Novecento animarono le alterne vicende della città-porto, in coincidenza con l’estensione ottocentesca del carrubeto e con un’ulteriore spinta all’urbanizzazione sostenuta dal tangibile incremento demografico.
Per l’attuale società in cui la politica si presenta estremamente debole di fronte al potere economico, finanziario e mediatico (P. Palagi), l’eredità lapiriana innesca la speranza da incarnare nella sfera del quotidiano per risanare le fratture culturali, politiche, formative, abbattendo il senso di smarrimento dinanzi ad una palese crisi del ruolo stesso della politica.

Per tale ragione il pensiero-testimonianza di Giorgio La Pira, mi ha spinto a recuperare la lettera che lo stesso inviò nel 1947 ai suoi giovani amici di Pozzallo. È una missiva affidatami dal compianto pozzallese Michele Cugno, dirigente responsabile dell’Ufficio Collocamento di Pozzallo, durante le conversazioni estive di fine novecento a casa di Luigi Rogasi, autore della siciliana formazione del Sindaco di Firenze. Dalle parole di La Pira promana il valore della “missionarietà” come lievito comunitario.

“Cari Amici, vi ringrazio del pensiero delicato. Certo è un dono grande quello che la Provvidenza ci fa permettendoci di aprire lo sguardo sui panorami vasti ed attraenti del cattolicesimo operante nel mondo: questa è un’epoca di vastissima rinascita: ed il lievito fermentatore di questa rinascita è costituito appunto da questa misteriosa energia rigeneratrice che la Chiesa porta nelle sue viscere divine.
Finisce l’opera aperta con la Riforma e se ne apre un’altra: un’altra che non è ancora l’opera terminale, ma che ad essa si accosta: l’esperienza marxistica segna la chiusura di una parentesi così vasta quale è quella dissociata ed anticristiana apertasi quattro secoli or sono.
È un grande privilegio quello che Dio ci fa chiamandoci a lavorare in questa rinascita del Cristianesimo, perché ci chiama così ad una attività “missionaria” che ha per scopo la inserzione della grazia di Cristo in tutte le strutture del pensiero e della vita.
L’impegno è grande: esige serietà di vita interiore e serietà di meditazione: non si fa nulla di grande senza una capacità grande di preghiera, di riflessione, di sacrificio.
Sono certo che la grazia del Signore manterrà nelle vostre anime questo splendore di ideali che dà luce e valore a tutta la vita.
Pregate la Madonna per me.”
Giorgio La Pira
S. Francesco di Sales 1947
Al respiro del Mediterraneo, dove i numerosi nomi di Dio si mescolano agli infiniti nomi del mare, (Cassano) La Pira avvertì una profonda eco interiore, confidata con una lettera spedita nel 1920 da Pozzallo al fraterno amico messinese, Salvatore Pugliatti:
… il più fervido religioso non sentirebbe come sento io in questo momento. Ora solamente capisco che ciò che altri chiama Dio è ciò che io chiamo spirito, e più precisamente Amore, e che gli stessi dogmi della fede, anzi che i dogmi più terribili, costituiscono l’essenza di quest’Amore!

All’interno della basilica di San Marco, a Firenze, la stessa tomba di La Pira, disegnata dall’architetto Riccardo Mattei, irradia la forza simbolica del basamento in pietra siciliana e della lapide in pietra serena, proveniente dalle colline fiorentine: le radici siciliane e il legame a Firenze attestano visivamente ed emotivamente la sacralità delle città che non sono cumuli occasionali di pietre, ma portano i segni caratterizzanti la loro identità, intrisa di memoria e di futuro.
