“Prioritaria è la salvaguardia dei beni culturali, paesistici e naturali. Tutto il resto viene dopo e qualunque ipotesi di cambiamento o di sviluppo va rigorosamente subordinata a questi valori”.
(Antonio Cederna)
di Giuseppe Cultrera
Era un tipo chiuso, ostico, persino antipatico secondo alcuni. Difatti nel suo percorso lavorativo e di ricerca l’archeologo Giuseppe Cultrera (Chiaramonte Gulfi, 1876/1968) non aveva avuto vita facile; né agli inizi, durante il fascismo, né a fine carriera, alto dirigente dei beni culturali nella nuova Italia repubblicana.
Non potevano sapere i suoi paesani che quella rigorosa etica che gli aveva reso difficile la carriera accademica ed amministrativa era “di assoluta avanguardia e preveggenza” e si può ritrovare anche in una delle ultime opere “Estetica dell’edilizia e dell’urbanistica” (1952), dove si scaglia contro le scelte urbanistiche scellerate che stavano portando al sacco di Roma, contro le quali anni più tardi si sarebbe battuto Antonio Cederna.

Nel 1947, quando fu posto a riposo, si trasferisce a Chiaramonte dove trascorse il resto della vita, dedicandosi a ricerche e studi tralasciati o interrotti durante l’attività lavorativa e ad una riservata vita sociale: pertanto il suo interessamento per gli aspetti artistici o paesaggistici della sua città, derivò più da sollecitazioni o richieste delle istituzioni e dei tecnici, che da una sua predeterminata volontà.
Così fu per “la stupenda veduta panoramica, caratteristica del paese, che desideravo fosse tutelata integralmente, anche lungo una via periferica che si affaccia a valle” dove imprenditoria privata e Amministrazione comunale intendevano allocare costruzioni di “interesse generale”.

La sua ferma opposizione espressa prima con pacati interventi e proposte alternative, poi con segnalazioni agli enti preposti alla tutela (Soprintendenza in primis) ed infine con pubblica denuncia a mezzo stampa e pubblicazioni, lo contrappongono a benpensanti, amministratori locali e funzionari del settore. Perciò la successiva vicenda della chiesa di S. Caterina lo trova particolarmente diffidente.
Nel gennaio 1953, mentre era viva la polemica per la sopracitata veduta paesaggistica, il Cultrera ha sentore che si stia avviando un percorso per “bonificare” i resti della Chiesa di S. Caterina e venderne l’area a privati.

Nella parte centrale dell’abitato di Chiaramonte Gulfi, accanto alla chiesa madre e confinante in parte con la piazza antistante, era sorta, intorno al secolo XV, quando la città medievale uscita dalle mura si allargò verso sud ovest, un convento di monache benedettine ed una piccola chiesa intitolata a S. Caterina. Gli storici locali testimoniano che fu approdo delle fanciulle delle famiglie nobili chiaramontane.

Crollati col terremoto del 1693 furono ricostruiti. La Chiesa su progetto di Natale Bonaiuto, originale architetto siracusano, ampiamente presente nel Val di Noto. Il prospetto era animato da un elegante portale barocco con colonne aggettanti, pilastri laterali a bugne (un elemento raro in Sicilia, specie nell’architettura settecentesca); tutto il paramento era in blocchi squadrati.
L’interno, preceduto da un elegante pronao colonnato, era ornato da stucchi serpottiani. Gli storici del secolo XIX (Melfi, Nicosia, Puccio) che la videro integra e funzionante, la ritennero tra le più belle del paese.

Il Convento nei primi del 900 era stato trasformata in uffici e strutture comunali, altra parte negli anni ‘50 e ‘60 venduta a privati. La chiesa tra il 1953 e il 1954 fu demolita ed i locali acquistati da un privato.
La motivazione fu di carattere di sicurezza “per lo stato di degrado” e funzionale in quanto avrebbe impedito, essendo il prospetto sporgente sulla via S. Caterina di oltre un metro, la circolazione dei mezzi. Motivo per cui già era stato demolito il culmine del prospetto.

L’archeologo, che ormai abitava stabilmente a Chiaramonte dopo il collocamento in pensione, si interessò della vicenda (anche perché consultato e coinvolto dalla Amministrazione Comunale): consigliando il totale recupero della struttura, con un intervento prima di consolidamento e poi di restauro, per il quale egli si era interessato al fine di avere autorizzazioni e finanziamenti.
Poi, quando l’alternativa demolizione (che non era stata mai alternativa, ma, intènto perseguito con manovre abili e subdole) divenne l’unica, propose la ricostruzione del prospetto in altro luogo adatto (quali i giardini pubblici).

Questa proposta fortemente voluta dalla soprintendenza era anche accettata dal Comune. Egli stesso s’interessò al progetto di sistemazione degli avanzi, a cura del tecnico comunale e di un tecnico della soprintendenza, allegando una sua relazione “Proposta di sistemazione degli avanzi recuperabili della Chiesa di S. Caterina nella Villa Comunale Maggiore Cutello”.

Poi per tre anni, dal 1953 al 1956, fu un balletto di proposte e controproposte, accese o larvate lettere dell’ufficio per i beni artistici della Soprintendenza con sede a Catania al Comune, risposte di questo con assensi o dinieghi, interventi del Ministero (sollecitati dal nostro che fu per questo anche a Roma); e intanto si demoliva il prospetto, per urgenti motivi di sicurezza e funzionalità, in occasione dei festeggiamenti del 1954 per l’incoronazione della Madonna di Gulfi con la presenza del Presidente della Regione e dell’arcivescovo Ruffini di Palermo; poi si trasportavano i blocchi numerati nei paraggi della Villa Comunale, altro materiale andava al macero.

Nel frattempo il funzionario della Soprintendenza assicurava che si erano avviate tutte le pratiche per la ricostruzione (persino) totale della struttura sacra. Il Cultrera aveva interessato Biagio Pace, al quale era legato da stima ed amicizia: per cui anche i finanziamenti per la ricostruzione apparvero probanti. Ma la morte dell’archeologo Pace, avvenuta nel settembre del 1955, tolse ogni illusione. Si finiva di demolire, ed i resti prendevano varie strade: persino l’utilizzo come pietra per brecciame!

Disillusione, rabbia, rimpianto per un bene artistico colpevolmente distrutto trovano sfogo, concitato racconto e lucida disamina in due opuscoli che pubblicò a conclusione della vicenda. Il primo “La fu chiesa di S. Caterina in Chiaramonte Gulfi” (Siracusa, 1956) è un saggio storico artistico che analizza, confronta e colloca nel contesto siciliano il pregevole reperto.

Il secondo “Come fu distrutta la chiesa di S. Caterina in Chiaramonte Gulfi” (1957), esemplare pamphlet politico, svela il rigore etico e la passione estetica e morale di un galantuomo.
La lettura di entrambi è un percorso maieutico nella memoria e nella topografia dell’anima di questa, e di tante altre, città.

“Insensata leggerezza e imperdonabile inerzia hanno agito in combutta, per distruggere una pregevolissima opera d’arte, la cui bellezza e la cui importanza erano state manifestamente riconosciute da coloro che nulla in concreto hanno fatto per salvarla. Per inclinazione naturale e per abito professionale, sentii di non potermi sottrarre al dovere di cercar di impedire che si perpetrasse un reato. Quando non mi fu possibile di evitarlo, tentai tuttavia di mettere in salvo quel poco che, acconciamente ricomposto in un luogo pubblico, ne avrebbe costituito un mirabile ornamento, oltre che un prezioso documento storico. Ma neppure a questo sono riusciti i miei sforzi.”

Della chiesa di S. Caterina, rimangono alcune sbiadite immagini d’epoca; i resti del prospetto, smontati e destinati ad essere ricomposti, si sono eclissati col tempo (alcuni frammenti furono sistemati all’interno della chiesa del Salvatore e sono sufficienti a farci percepire lo scempio perpetrato). L’austero archeologo non lo ricorda più nessuno.
1 Comment
Interessante articolo che mi ha dato l’opportunità di conoscere la triste storia della chiesa di S. Caterina. Non avrei mai immaginato che al posto del Cinema D’Avola esistesse una bellissima chiesa. Peccato che questo patrimonio architettonico sia stato perso, nonostante gli sforzi dell’archeologo Giuseppe Cultrera.