di Redazione
Parleremo oggi di un personaggio controverso che ha affascinato due autori del nostro tempo, Eco e Fo; ma anche il conterraneo Guastella e, cinque secoli prima, il sommo Dante (Inferno, canto XXVIII). Di Dante era contemporaneo il francescano fra Dolcino vissuto a cavallo del XIV secolo, seguace degli Apostolici che, per le loro scelte libertarie e pauperistiche, entrarono in contrasto con i Vescovi e i potenti feudatari della Valsesia e di Novara. Fu lotta armata, dal 1304 al 1307, e contrappose i frati ribelli, i contadini e gli oppressi di quelle valli, all’armata crociata che rappresentava legalità e chiesa. Gli “eretici” furono sconfitti e fra Dolcino e la compagna Margherita condannati al rogo.

Ma non riuscirono a bruciare le loro istanze sociali e libertarie, se secoli dopo riaffiorarono, esplicitando spesso le ascendenze medievali, con Giordano Bruno, l’illuminismo, la rivoluzione francese, il socialismo, persino il moderno movimento pacifista. Quest’utopia anarchica affascinò Dario Fo che dedicò al movimento pauperista e ai suoi romantici eroi, Dolcino e Margherita, una testimonianza di affetto e una raffigurazione grafica.

Umberto Eco invece era interessato dal contesto (gli Apostolici e i Dolciniani riproponevano istanze e approcci religiosi che erano del francescanesimo originario e che fluirono nel grembo della chiesa ufficiale, settant’anni prima; chissà se Francesco d’Assisi nelle aspre temperie del 1307 sarebbe stato proclamato santo o avviato al rogo?) e dai percorsi sociale e culturale, quando il “buio” medioevo si avviava al rinascimento. Oscurantismo – rappresentato dall’inquisitore e dalla curia romana – e colto umanesimo, espresso da fra Guglielmo da Baskerville, si confrontano e scontrano ne Il nome della rosa, coinvolgendo il lettore tra romanzo storico (centrale è la scoperta di un piccolo nucleo di eretici dolciniani all’interno del convento) e conte giallo.

E Guastella, direte, cosa c’entra? Il baronello chiaramontano compose la prima, o una delle prime, opere giovanili con soggetto la tragica storia d’amore e morte del frate condottiero e della compagna la nobile Margherita di Novara, che abbandonò ricchezza e potere per sposare la causa degli oppressi. Un testo autografo ritrovato e pubblicato qualche anno fa (Fra Dolcino, un’opera giovanile del Guastella, in: Giuseppe Cultrera, Il canto di Dafni, Utopia, 2011) intriso di poetica romantica.
Fra Dolcino è probabilmente un testo teatrale, da rappresentare nel proprio palazzo baronale, per il divertimento di familiari e amici, in occasione di un avvenimento mondano o una festa di famiglia. Lo si evince dalle pagine finali dove sono appuntati alcuni nomi di notabili, destinatari dell’invito.
La sua narrazione sposa la versione tradizionale: la componente erotica nella scelta rivoluzionaria, l’amore per la bella novarese (Bettina, nella trasposizione del Guastella), la tragedia annunziata verso cui il protagonista con sprezzo corre incontro, il drammatico finale d’amore e morte. E accentua una rappresentazione caricaturale dei personaggi, che non è soltanto per la presunta trasposizione teatrale, ma è la poetica in nuce del futuro Guastella, dove la vicenda umana è filtrata attraverso la lente deformante del disinganno e dell’ironia.

«Era il mese di Dicembre! Le montagne tutte di Novara erano avvolte in un nebbione fitto fitto e profondo… piovigginoso era il cielo e tutto nero a la vista, quando un uomo incappucciato tutto, e succiandosi il fiato saliva ad una specie di pianura, ove c’erano una quantità prodigiosa di trabacche di legno, dipinte a vari colori… saliva saliva, ma anelava affannoso del petto, per l’erta faticosissima, e ripida… infine giunse ad una de le trabacche … bussò, e gli venne aperto …. un uomo, di bello e maestoso portamento.
– Oh fra Dolcino!… oh Santo Apostolo…
– Risparmiate meco il titolo e che son io se non un poco di fango al cospetto di Dio? Ma veniamo al sodo. Che si dice di noi in Novara
– Male… male nuove o San… o fra Dolcino!!! Tutto il popolo si arma, dai signori alla plebaglia c’è un grido di vendetta, un impugnar di armi, che è spaventoso a vedersi…
– E che? Così presto vi scoraggiate o fra Luca… temete dunque che la nostra causa sia pessima e riprovata da Dio, per abbandonarvi a così vili paure? Dubitate forse voi ch’io non sia l’Apostol di Dio! O l’armi dell’uomo son pur di ghiaccio, a paraggio di quelle della religione? E poi… non siam noi forti d’uomini e di bagagli, e d’armi, e di cibo? lasciate che vengano o fra Luca, e saranno tra due giorni a dormir coi lor padri…
Oh Bettina, Bettina mia – vieni ch’io ti dia un bacio! così – così è giusto. Senti, senti Bettina mia tuo marito ha suscitato tutta Novara a venirci contro.
– Mio marito! O quale empietà! Andar contro l’apostolo di Dio! O fra Dolcino siamo in un secolo assai nefando, nefando assai… Niente più si rispetta nemmeno la religione!»
Un’ennesima conferma della modernità della letteratura siciliana del secolo XIX che si nutriva non solo di apporti e cifre stilistiche mitteleuropee ma recuperava fascinazioni e istanze sociali dal presente e dal passato per farne oggetto di studio. E il giovanissimo Guastella, incespicando magari un po’ in questa prima prova, vi approda. Restituendoci, oltre alla figura epica di un personaggio controverso, aspirazioni, fermenti e istanze che apparentano il tardo medioevo alle epoche moderne e contemporanee.