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di Federico Guastella

Dal poderoso scritto “Il maestro di Regalpetra” di Matteo Collura apprendiamo che una copia di Fatti diversi di storia letteraria e civile (Sellerio, Palermo 1989), in cui sono raccolti diversi saggi, fu consegnata da Elvira Sellerio a Sciascia prima della sua morte. E’ il quarantatreesimo libro cui egli ha dedicato le ultime attenzioni. Lo tiene in mano mentre aspira alcune boccate da una sigaretta che subito spegne. L’opera, il cui titolo dal gusto francesizzante richiama quella di Croce (da lui preferita), tratta argomenti sull’essere siciliani, tra cui scrittori e artisti che della Sicilia hanno dato un’immagine di universalità.

(foto da Lariobook)

Tre i bei saggi dedicati al territorio della provincia di Ragusa: La contea di Modica, Invenzione di una prefettura, in cui recupera il pittore del regime Duilio Cambellotti che decorò i saloni del palazzo prefettizio, Guastella, il barone dei villani. Soffermiamoci in particolare sull’ultimo, essendo Guastella un singolare autore dell’Ottocento siciliano nominato per la prima volta nell’opera Morte dell’inquistore (Pubblicato da Laterza nel 1964 e definito da Sciascia come «breve saggio o racconto»). E’ probabile che egli abbia scoperto la presenza di Serafino Amabile Guastella leggendo il libro “Del Sant’uffizio a Palermo e di un carcere di esso” (opera postuma “di strettissima stampa”, curata da Giovanni Gentile), scritto dal demologo dell’Ottocento Giuseppe Pitrè.

Serafino Amabile Guastella

Parlando della pena del “collaro” (un anello di ferro, infisso in una murata della piazza, il quale si apriva o chiudeva con apposito congegno), diffusa anche a Racalmuto, Sciascia cita i versi raccolti da Guastella, trascritti ne “I canti popolari della Contea di Modica”, libro rarissimo e non più pubblicato da quando per la prima volta fu dato alle stampe (1876). Indubbiamente lo scritto dovette destare la sua curiosità, e sicuramente l’avrà nel frattempo reperito in qualche biblioteca. Se ne servirà in modo analitico nel saggio sulla Contea di Modica, riportando distici e stornelli su fatti storici, verseggiati dal popolo.

Ecco un esempio. Quando il popolo parlava del matrimonio di un’orfana, alludeva a Venezia Palazzi che, sposa di Simone Chiaramonte, aveva istituito una dote per le orfanelle del paese. Da qui i versi che ricordano la circostanza:

“Vinezia, l’armi santi fannu festa
C’addutàstivu a tutti l’urfaneddi”

Dopo i Chiaramonte, Bernardo Cabrera, nel 1392 in seguito all’investitura fatta da Re Martino, ricevette, con i più ampi privilegi il territorio della Contea di Modica e un distico – scrive il Guastella – udito da una popolana di Modica, pare potesse adattarsi a quel Giovanni Cabrera, prima divenuto esoso con le angherie, poscia benemerito con le concessioni enfiteutiche ai vassalli:

“Crapuzza, ca ppi nui si’ crapa r’oru
Rinnillu, si spiddiu lu tiempu amaru!”

La Contea di Modica ai tempi di Bernardo Cabrera

Puntuale la conoscenza di Sciascia dei testi di Guastella: specificamente Padre Leonardo e Le parità e le storie morali dei nostri villani di cui si occuperà nel saggio Feste religiose in Sicilia (1965), dove sostiene che il mondo religioso in Sicilia “ha radice in un profondo materialismo, in una totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica”. Lo studio confluirà poi nell’opera La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (1970), in cui nel saggio “Verga e la libertà” (datato 1963), oltre a citare un brano dei Canti popolari di Guastella sulla natura ribelle del contadino modicano, riporta il canto della messe, considerato “il canto della scatenata anarchia contadina, dell’odio verso ogni altra classe, e categoria sociale, della devastazione di ogni valore”.

Gustoso il brano tratto dal racconto Padre Leonardo sulla Guerra di santi di verghiana memoria a testimonianza di una “sicilitudine” che abbracciava il fanatismo come deformazione del significato religioso. Poi don Leonardo prende in esame l’opera Le parità e le storie morali dei nostri villani, inquadrando le parabole guastelliane, raccolte dalla viva voce popolare, in un organico antivangelo: «E crediamo sia difficile trovare, nell’animo e nella cultura di altri popoli, una visione della vita così rigidamente e coerentemente in opposizione al messaggio evangelico».

Incisione di G. Vuiller, da La Sicilia. Parigi, 1896 (particolare)

A sostegno della sua tesi, riporta una parabola e una storia: la prima si riferisce all’egoismo di San Paolo, rappresentato come un capo-mafia “accorto e cinico” (sarà ripresa nell’opera Nero su Nero, pubblicata da Einaudi nel 1979 e da Adelphi nel 1999); la storia è quella di fra Illuminato, monaco questuante e sant’uomo di stampo francescano che vorrebbe andare a denunziare un assassinio, ma in nome dell’omertà viene dissuaso dal farlo da tre animali (un coniglio, un cane, un agnello, una statua): “Dio non vuole che lo denunzi”. In un primo tempo egli resiste agli insulti, ma alla fine cede, scegliendo di tacere, convintosi che la volontà di Dio è superiore alla decisione di volere giustizia.

La conclusione di Sciascia è severamente obiettiva: «E tutte le altre “parità” e storie contengono crudi rovesciamenti della morale cristiana, prescrivono – avallati dai santi e dal Signore in persona – comportamenti inflessibilmente asociali e antisociali: il Signore che confida ai poveri che il principale loro male è lo sbirro e che raccomanda ad Adamo di usare sulla moglie il bastone (che per questo servizio non si chiamerà più bastone, ma Ragione); san Gerlando che fa il ladro di mestiere; san Giuseppe che va a rubare fichi con Gesù Bambino per mano, san Martino la cui santità non vien meno anche se eccessiva è la sua dedizione al vino; san Francesco di Paola che a cuor leggero fa testimonianza falsa, san Cristoforo, per sua parte parricida, che consiglia a sant’Elmo di praticare il contrabbando, e così via”.

Leonardo Sciascia (foto da huffingtonpost.it)

In conclusione, ecco la domanda: per Sciascia chi è Guastella, l’aristocratico di Chiaramonte Gulfi? Quale posto occupa negli studi del folklore e nella letteratura? Profonda l’intuizione. Il barone dei villani, utilizzando la definizione di Cocchiara, è visto in una zona di equidistanza tra Verga e Pitrè: «Ora a me pare che Serafino Amabile Guastella stia, con la sua opera, come un punto intermedio tra “l’epopea del vicinato, così come veniva svolgendosi nei cortili e nelle case nei pomeriggi estivi e nelle sere invernali, e I Malavoglia e le novelle rusticane del Verga…

E dicendo “un punto intermedio” non voglio indicare un valore letterario che sta tra la registrazione di una voce narrante (coi mezzi del Pitrè o con quelli di oggi) e il suo trasformarsi, trasmutarsi e decantarsi – in uno scrittore come il Verga – in memoria e fantasia; voglio dire, piuttosto, di un intendimento, di un tipo di attenzione, di un giudizio per cui quel mondo, il mondo contadino della contea di Modica nella seconda metà dell’Ottocento, viene come assunto in vitro al di sopra del documento e prima che lo si assuma nel sentimento: dando luogo a una specie di genere letterario che tiene più del “conte philosophique” che del romanzo o racconto di verismo lirico qual viene manifestandosi in quegli anni».

(Da sinistra) Giovanni Verga e Giuseppe Pitrè

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