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di Giuseppe Cultrera 

Proponiamo, in anteprima, uno stralcio dal catalogo Il colore del tempo, relativo a una selezione di 36 opere di Santo Paravizzini, in mostra da domani a Chiaramonte Gulfi (Piazza duomo, ex Museo dei Cimeli storici).

Voglio subito avvertire il cortese lettore che non intendo cimentarmi in un saggio critico e neppure in una esegesi storico artistica di Santo Paravizzini che, pittore – come forma e sostanza propria della categoria – non ha mai inteso o preteso essere. Un racconto piuttosto: del suo mondo, dei ricordi, del paesaggio e degli uomini che vi hanno interagito. Innanzitutto, la famiglia, che adesso ricorda con nostalgia come l’ala protettiva in quel periodo spensierato della sua vita, e la casa incassata nelle prime elevazioni della collina con quella strada sterrata che, sinuosa, affronta la pendenza dal fondovalle del Paraspola.

Mi racconta (e ci racconta) di quante volte, con allegra solerzia, la mattina l’avesse percorsa per raggiungere la scuola rurale di Muti, distante un paio di chilometri: la cartella in spalla che sobbalzava a ogni dosso, con dentro il sussidiario, i quaderni e le matite e, avvolta per bene nella carta da zucchero, la merenda preparata dalla mamma, un paio di fette di pane di casa, condite con il cacio o la marmellata di cotogne (che questo si poteva permettere la povera gente). Lungo la strada incontrava altri bambini che si recavano alla stessa scuola primaria, i contadini del vicinato già intenti dall’alba al lavoro dei campi, don Angelo che, dopo averle munte, riportava al campo aperto le mucche, i braccianti che attraverso lo stradale si spostavano da un campo all’altro.

Proprio a scuola aveva appreso, oltre alle prime nozioni, il disegno e l’uso del colore (aveva dovuto insistere parecchio con la mamma perché gli comprasse una scatola di matite colorate, l’aveva ottenute, – soprattutto perché la maestra aveva detto che “il ragazzo è bravo nel disegno” – ed era stato come toccare il cielo!). A questo periodo, di scolaro, appartiene una piccola scultura, tra le prime creazioni artistiche, che troverete esposta alla mostra.

Per chi viveva in campagna, dal momento che la famiglia traeva qui sostentamento con il duro e precario lavoro della terra, lo studio e il gioco andavano condivisi con quel lavoro di supporto alla famiglia. Il piccolo Santo lo sapeva bene, sin da fanciullo, che il suo mondo era questo. E lo fu ancora quando finite le scuole primarie cominciò a frequentare le medie a Chiaramonte: con una levata all’alba per (quando andava bene) “prendere il pulmino di don Pinò, col quale tutti quelli di campagna, stretti come sarde salate venivamo condotti a scuola”. Tornato a casa, nel pomeriggio, compiti e gioco venivano dopo il lavoro di supporto al padre e l’aiuto nelle faccende domestiche alla madre.

Si chiamava applicazioni tecniche la materia che più gli piaceva, in quanto c’erano gli elementi e le nozioni del disegno; ed era quella in cui eccelleva, dove l’introverso ragazzo di campagna si sentiva considerato dai compagni di classe. Le composizioni ornavano con facilità il foglio bianco da disegno e, quando si vestivano di colore, ancor più appariva il racconto e lo scenario, con protagonisti il più delle volte la natura e il lavoro dei campi.

Tante volte dal Paraspola, dove stava appollaiata la casa rurale della sua famiglia, aveva percorso gran parte di quei viottoli fiancheggiati da coltivazioni di cereali, frutteti e vigneti, dentro la fitta o asimmetrica trama degli ulivi nuovi e antichi. Intrisi dell’odore ispido del timo e del finocchio selvatico, assopiti dal ronzio monotono delle api iblee, immersi negli azzurri cangianti dei pomeriggi “pallidi e assorti” anelanti a tramonti stemperati nel rosso siciliano.

Anni dopo, finita la scuola dell’obbligo, aveva ripreso, quasi per gioco, matite e pennelli e sulla tela aveva trasferito quei ricordi, fissandoli nel paesaggio umano che era, ora, il suo tempo e luogo di lavoro e di vita famigliare e sociale. Piacquero a parecchi, qualcuno ne volle uno, altri lo spronarono a farne un hobby (come si diceva allora), magari a venderli, partecipando a mostre e manifestazioni.

Il colore del tempo
Santo Paravizzini mentre esegue uno scorcio dell’arco dell’Annunziata a una estemporanea del 1990 (foto Vincenzo Cupperi); (al centro) con attestati e diplomi di partecipazione; e, infine, in una recente istantanea (foto Pippo Bracchitta)

È questo il primo e, forse, il più poeticamente creativo momento artistico. Con una produzione di numerosi dipinti, dove il colore e il paesaggio hanno predominanza sull’elemento umano o didascalico. E dove i contenuti e le forme stilistiche non vanno ricercate (perché non esistono se non sotto forma di vaghe reminiscenze scolastiche o curiosità e letture sporadiche): essendo in presenza di un autodidatta. Che per comodità è stato etichettato naïf: come se fosse semplice ingabbiare in una definizione l’artista non professionista, privo di sovrastrutture colte, ingenuo o primitivo come la natura elementare che rappresenta!

Potremmo invece dire che Santo Paravizzini come una parte di coloro che si dilettano di pittura, ha trovato una sua strada – chiamiamola scorciatoia, magari – per esprimere pensieri e parole in forma di poesia, per comunicare, prima con sé stesso e poi con gli altri.

In forma di foglie o di uccelli che ondeggiano nell’aria e si posano qua e là: come quei quadri stesi ad asciugare al sole attorno a casa sua, che appunto sembravano volteggiare ed essersi posati sui tetti e sulle piante attorno, che impattarono nella visuale di un gruppo di curiosi e probabili acquirenti che, anni fa, si recarono a trovarlo in campagna. Lui ride divertito quando riporto alla memoria l’episodio, strizzando l’occhio a Pippo che conferma, essendo uno del gruppo; e continua a ridere agitando le mani come se quei dipinti fossero lì davanti ad ondeggiare o tentare il volo.

Riemerge, nel viso marcato dal tempo e dal dolore, il sorriso, tra l’ingenuo e il furbo, del fanciullo che percorse i viottoli sterrati del Paraspola, “rubando” colori, sapori e odori, ogni anno risorgenti uguali e diversi nello stesso tempo, per fermarli nelle tele. Assieme alle spighe dorate, invano protette da un sorridente spaventapasseri, distratto da uno stormo di uccelli che si approssima; nel campo di girasoli assolati, dove pigre mucche brucano la verde erba e attorno un ubertoso paesaggio collinare – come grandi mammelle della terra madre protese al cielo – diviene sempre più luminoso; i contadini intenti a raccogliere, in robusti manipoli, il grano appena mietuto per farne gregne da affidare al mulattiere che li avvia all’aia, dove il solleone di giugno, impietoso, si abbatte sul paesaggio con riverberi accecanti e, a stento, i cappelli di paglia a larghe tese dei mietitori contengono fara e luce; mentre ingordi e rosei maiali divorano la ghianda per terra, sotto la quercia di Muti, antica come il paesaggio circostante; e quel carretto, trainato da un mulo irrequieto, accanto al quale si adopera la famiglia nel fondo sottostante alla casa, con la bianca strada in salita circondata dagli ulivi saraceni, alberi millenari che hanno numerato il tempo al Paraspola. Quel mulo che una triste sera, al termine della dura giornata di lavoro, con in groppa il padre, impattò contro un mostro ruggente (che di cavalli ne aveva oltremisura): e nessuno dei due fece ritorno a casa.

Si rigira nella sedia. Il corpo sembra essersi ancora più appesantito e lo sguardo ha una smorfia, “come una specie di sorriso”. Guarda entrambi con disarmata tristezza: «Il tempo passa».

Banner: Santo Paravizzini, Primavera a Paraspola (part.)

 

il colore del tempo
Autoritratto
il colore del tempo
Lo spaventapasseri
paravizzini
Campo di girasoli
paravizzini
Mietitura
Paravizzini
Carretto siciliano

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