di Antonio Incardona
Durante la prima metà dell’anno la domanda di gioielli si è quasi dimezzata a causa di una serie di fattori, tutti legati al Covid-19: chiusura delle gioiellerie, quarantena, aumento della disoccupazione, persino il crollo del turismo ha contribuito al calo delle vendite.
Tutto ciò ha però influito solo marginalmente sulla domanda globale di oro: l’industria dei gioielli, infatti, gioca un ruolo minoritario nel mercato del lingotto. Il più importante è quello dei paesi arabi produttori di petrolio, le cui banche centrali lo acquistano regolarmente. Ebbene, anche questo mercato è depresso, poiché la caduta della domanda energetica ha prosciugato le entrate in monete forti.
In realtà anche le banche centrali dei paesi ricchi, che acquistano oro per tenerlo nelle loro riserve, nella prima metà dell’anno si sono astenute dal fare shopping di lingotti. E così, secondo la banca internazionale HSBC, per la fine dell’anno la domanda globale di oro tradizionale, e cioè proveniente da questi investitori potrebbe essere meno della metà dello scorso anno.
Allora ci si domanda: perché il prezzo dell’oro è salito oltre i 2000 dollari l’oncia per poi stabilizzarsi a ridosso di questo valore? Cosa guida l’ascesa del metallo giallo?
La risposta va ricercata nel nuovo ruolo che svolge il lingotto, non più visto come bene rifugio durante le grandi crisi e sempre acquistato per brevi periodi (perché non produce interessi o dividendi), ma come investimento da tenere in portafoglio anche per periodi lunghi, in alternativa al dollaro. E così dall’inizio dell’anno il deprezzamento del dollaro ha spinto i fondi di investimento tradizionali ad acquistare oro facendo lievitare la domanda globale.
Un bel rischio dal momento che il lingotto non frutta nulla.