di Giuseppe Cultrera
‘Quannu u Lau s’annèa / Ciaramunti si ni prea’ recitava un vecchio detto locale. E significava che essendo piovuto parecchio in autunno, il raccolto dell’anno successivo sarebbe stato ottimo. Pazienza per quell’avvallamento – a nord ovest della città, che per la sua peculiarità particolarmente argillosa tratteneva più a lungo l’acqua – destinato a restare incolto.

Ma ci fu un tempo in cui era stato perennemente coperto d’acqua, noto come il ‘lago Cannizzo’ dal nome del potente feudatario che ne fu possessore dal XVI secolo. A detta degli storici pure ‘pescoso’ con abbondanza di carpe, tinche e anguille. Nell’ottocento passò ai Ventura Nicastro e il barone Saverio sul finire del secolo lo prosciugò bonificando il fondo.

Nella storia di Chiaramonte Gulfi l’acqua è stato un elemento importante – come d’altronde in tutte le piccole e grandi comunità del passato – ampiamente presente nel suo fertile territorio: dalle falde dei monti soprastanti scaturivano (ed in parte ancora sussistono) numerose sorgenti d’acqua che confluivano nella vallata attraverso vari torrenti fino ad innestarsi nei fiumi Dirillo ed Ippari. Lungo il loro corso, specie in quelli di Donna Pirruna e Cifali, numerosi mulini usufruivano dell’acqua quale forza motrice: quattordici per l’esattezza dal Mulinello a Cifali limite del territorio chiaramontano.

Tale abbondanza d’acqua era effetto dello scioglimento del ghiaccio e della neve presenti sulle alte montagne, dove era attiva un’altra ‘industria’ chiaramontana, quella delle neviere, molte delle quali tutt’oggi visibili sull’altopiano dell’Arcibessi.
Oltre al lago sono scomparsi la maggior parte dei mulini. E delle neviere quelle che sopravvivono sono malandate. Tutti esili testimonianze di archeologia industriale da tutelare.


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Diciamo che il processo di desertificazione sta dando i pripri frutti