di Giuseppe Cultrera
Attorno a un albero d’olivo che hanno piantato i suoi antenati, Ulisse erige l’alcova; anzi questo stesso, privato dalle fronde e scarnificato nel tronco, ne è il centro, il talamo nuziale, ancorato alla terra attraverso le radici che si sono nutrite del suo humus. Poi continua a costruire attorno gli ambienti da abitare quotidianamente e quelli del lavoro, quali arti di un corpo che viene vivificato e nutrito da quel cuore centrale. Non è solo simbologia o mito. È il fondamento della civiltà e cultura che pone al centro dell’universo l’uomo.
Di ritorno da una lunga guerra e da un altrettanto insidioso viaggio, Ulisse è costretto a una prova sovrumana per riappropriarsi della casa, dei beni e della moglie, insidiati da nemici, privi di religio e humanitas. Tanto che l’eroe sembra oltrepassare l’una e l’altra per ripristinare il diritto. E Penelope, la sposa forte e fedele, stenta a riconoscere in quell’uomo il suo Ulisse. Rivolta alle fide ancelle ordina di preparare la camera da letto, spostando il talamo. Ulisse, guardando fisso negli occhi la regina, svela ciò che solo lui e lei sanno: quel letto nessuno può spostarlo in quanto parte integrante dell’insieme, antico albero d’olivo conficcato nel suolo, parte dell’universo. E per la sposa fedele si sciolgono tutti i dubbi e le paure mentre le lacrime liberatorie rigano il suo volto finalmente accostato a quello dell’eroe ritornato.

Il fotografo Jacques Berthet intraprese nel 2010 un viaggio attorno al Mediterraneo, l’area che va dalla costa greca a quella spagnola, dove l’ulivo ha trovato fin dall’origine della civiltà vita e coltura e dove ancora sono rintracciabili esemplari millenari. Ne ha fotografato centinaia (Oliviers, Hazan, 2011): nelle isole e coste greche, nel litorale della Turchia, in Palestina (evocativi quelli antichi del Getsemani), nella costa africana, nella Sicilia e penisola pugliese e calabra della Magna Grecia. Hanno tutti, dentro i tronchi vetusti, scarnificati e sormontati da rado fogliame, la memoria del tempo e la cultura del lavoro e della coesistenza, multietnica, di tanti popoli. Le lotte, le conquiste – generalmente cruente – hanno permeato gli spazi attorno e si sono succedute ciclicamente, mentre loro, questi giganti millenari (che dalle nostre parti denominiamo saraceni), hanno, di anno in anno, elargito il frutto, da cui si estrae il prezioso alimento dell’olio.

In questi giorni, a Chiaramonte ferve la raccolta delle olive. I frantoi ne sono ricolmi; il fresco e pungente odore dell’olio appena molito si spande attorno. Nelle campagne, frotte gioiose di uomini, donne e ragazzi sono intenti all’opera; un rito che si ripete da antica data.
Immobili, questi alberi venerandi, simbolo non solo del lavoro ma anche della pace e dello scorrere del tempo, sembrano recepirne gli aneliti. Che, invece, sono grida di dolore e pianti per quelli, altrettanto vetusti e millenari, della Palestina. Nei cui tronchi contorti e scarnificati dal tempo rimbalzano. Il pianto del Cristo, nella solitudine del Getsemani, si replica ancora per un’umanità cieca e sorda, in cerca di torti e ragioni.
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Di limpida e lieve lettura. Complimenti! E mi piace dire che questa pianta prosperosa e robusta resa sacra da Atena, venne accettata da lei come dono dopo la sua vittoria su Poseidone per la protezione dell’Attica. Nel XXIII libro dell’Odissea (vv. 217-222), Penelope, all’indomani del ritorno di Ulisse, per fugare i dubbi sulla sua identità ordina ad un’ancella di spostare il talamo nuziale fuori dalla stanza da letto, perché Ulisse possa riposarsi: egli replica che nessun uomo mortale potrebbe riuscire nell’intento. Lui stesso l’aveva costruito ricavandolo da una secolare pianta di ulivo e dà una minuziosa descrizione della realizzazione del letto.