di Giuseppe Cultrera
Era usanza, durante le serate del solenne Novenario in onore della Madonna di Gulfi, che alcune persone portassero da casa la sedia per assistere alle funzioni sacre, risultando quelle in dotazione della Chiesa Madre spesso e volentieri insufficienti. Anche in questa suppellettile l’appartenenza e la rilevanza sociale veniva evidenziata: modeste le sedie, col fondo intessuto di zammara, del ceto contadino artigiano e popolare, più ricercate quelle dei professionisti e cavalieri, ancor più quelle dei nobili.

Quest’ultimi si erano fatti approntare dai loro falegnami delle panche a più posti che venivano recate in chiesa e sistemate dai loro inservienti, in occasione delle cerimonie religiose e specialmente delle azioni sacre. Come epoca siamo tra fine settecento e prima metà dell’ottocento. Questo “orpello” così andò sempre più qualificandosi come segno dello status sociale: le panche divennero sempre più eleganti, con alzata ed inginocchiatoio e cassetto nella seduta per accogliere cuscini e libro delle devozioni. La spalliera, in consonanza, sempre più vistosamente decorata ed elevata. Al punto da limitare la visione a coloro che stavano nella parte retrostante. E che erano, ovviamente, i ceti meno abbienti e influenti.

La faccenda creava parecchi malumori e discussioni. Ma con i potenti del paese non era facile spuntarla, né il parroco e il clero della matrice avevano voglia di imbarcarsi nella spinosa questione.
La scintilla scoccò nella serata del sabato dei jurnatari (siamo intorno al 1920/22). Furono costoro, appartenenti alla classe più emarginata e povera della piccola comunità, a trovare una drastica soluzione. I vanchitta (così erano chiamati in dialetto le eleganti panche) migrarono velocemente dalla chiesa al centro della piazza. “Ficiru nu’ vuolu” sintetizza il narratore popolare che rievoca l’episodio che – mi dice – ha avuto raccontato dal padre. E la rivolta, come la pentola quando raggiunge la massima pressione, esplose inconsulta e violenta con un gruppo di persone non più controllabili. Non paghi di aver dato fuoco a quel simbolo di arroganza del potere, tornarono in chiesa decisi a mettere in funzione ‘u cuonzu (la macchina per salire e scendere la pesante statua dall’altare) per riportare la Madonna di Gulfi al Santuario: fine della festa per tutti!

Intervennero i carabinieri, i sacerdoti e specialmente il Sindaco barone Giuseppe Nicastro de Leva, abile e navigato politico che aveva una buona ascendenza sul popolo. E la faccenda si calmò.
Le panche ridotte in cenere, però, non ebbero eredi. Negli anni successivi tornò un “democratico” approccio al posto a sedere durante le serate del novenario. Mentre i facinorosi autori del rogo e delle turbolenze, che i carabinieri avevano ‘singaliàto’ passarono brutti quarti d’ora; e fu grazie al sindaco Nicastro, che adoperò sagacia e buon senso, se tanti ‘padri di famiglia’ non passarono guai seri.
1 Comment
Interessante