di Giuseppe Cultrera
Nella vallata sottostante Chiaramonte, a circa quattro chilometri, sorge l’antica chiesa di Santa Maria La Vetere (oggi più nota come Santuario di Gulfi) unica vestigia e legame con la scomparsa città di Gulfi; città araba e poi normanna, che soppiantava (o continuava) la greco-romana Acrille nota attraverso gli scritti degli storici antichi Tito Livio, Plutarco e Stefano Bizantino.
L’antica chiesa, invero, non era proprio dentro l’abitato di Gulfi, ma sul limite esterno di sud est (extra moenia): forse proprio questa sua posizione periferica la sottrasse – unico edificio, di culto o civile – alla distruzione per ferro e fuoco, operata dai filo angioini di Ruggero Lauria nel 1299.

Nel silente paesaggio cosparso di ruderi, preda della vegetazione spontanea, il piccolo tempio continuò ad essere riferimento e baluardo di fede e speranza: mentre in alto gli scampati, tra stenti e ardimento ricostruivano le mura e gli affetti. Spronati in ciò dal nobile Manfredi Chiaramonte, da poco infeudato conte di Modica.
A quale epoca risalga la fondazione della chiesetta di Gulfi, non è noto. La tradizione la dice antichissima, sorta con l’avvento del cristianesimo in questa plaga; ed antichissimo il culto alla Madonna anche se, la prima dedicazione del tempio, quello paleocristiano, viene attribuita alla Natività del Redentore.

Le tracce, visibili oggi, di una o più preesistenze architettoniche sono di difficile lettura: sul lato di levante i grossi conci del basamento, messi in evidenza in un recente restauro della struttura, riconducono ad epoca altomedievale o anteriore; anteriore senz’altro alla successiva stratificazione che ingloba la porticina a sesto acuto che nella chiave di volta reca inciso il nome del magister lapicida (Stefano De Lucia) artefice di questa seconda ristrutturazione collocabile attorno al XIII secolo.

Questa solida struttura, frammenti della quale sono visibili sul lato esterno della parete opposta, è quella che scampò alla furia distruttrice degli angioni nel 1299. E che acquisisce la denominazione di S. Maria: il complementare La Vetere fu aggiunto per distinguerla da S. Maria La Nova, nuova chiesa parrocchiale della città rinascimentale.
La successiva fase, dal cinquecento al sisma del 1693, è rilevabile da una iscrizione (1567) nella parete di fondo dell’abside, riconducibile ai lavori di ristrutturazione dell’edificio sacro ad opera dei PP. Agostiniani chiamati a gestire il luogo di culto nel XVI e XVII secolo. In questi stessi anni i frati agostiniani ristrutturarono ed ampliarono il piccolo edificio attiguo, nella forma giunta a noi.

A seguito del citato sisma, un ulteriore intervento di sistemazione e consolidamento interessò l’intero complesso. Tra il 1730 e il 1740, su un progetto redatto qualche decennio prima dall’architetto fra Ginepro da Siracusa, la chiesa fu ricostruita ed abbellita da un baldacchino manieristico, destinato ad accogliere degnamente la statua della titolare. Lavorarono alla edificazione del tempio ed alla decorazione i mastri chiaramontani Tommaso e Vito Guastella, Vito e Giuseppe Sciacco, lo scultore Benedetto Cultraro (baldacchino, fregi ed intagli delle porte e del prospetto).

Ma fu fondamentale l’apporto economico e di mano d’opera del popolo chiaramontano pungolato dal dinamico e tenace Padre Antonino Finocchio. Alla sua opera di sensibilizzazione e di raccolta di fondi si deve anche la ricca dotazione di arredi sacri (piedistallo in argento, manti e corone della Madonna, stendardi e croci professionali) che resero le celebrazioni del novenario e il trasporto processionale della statua dalla campagna in città ogni anno un rito grandioso, oltre che per l’afflato popolare, per la magnificenza dell’apparato esterno.

Nel 1644 un editto di Filippo IV, re di Spagna e di Sicilia, impone un solenne novenario in onore della Madonna nelle chiese di Sicilia. Chiaramonte scelse la Madonna di Gulfi, che a partire da quella data venne condotta processionalmente dalla vallata nella Chiesa Madre, per nove giorni solennizzata a spese delle varie maestranze, e poi ricondotta con altra solenne processione nel Santuario.

Un rito che si è mantenuto sostanzialmente immutato nei secoli, fino ai nostri giorni.
La domenica dopo Pasqua (in Albis) di primo mattino il popolo chiaramontano, a piedi, si reca al Santuario, dove trova la Statua della Madonna già preparata dal giorno precedente per la processione: adornata di manto e corona, carica dei preziosi donati nei secoli dai devoti e posta su una rustica macchina processionale (baiardo) sotto cui si pongono i portatori e alle estremità della quale vengono agganciate delle corde con le quali un altro stuolo di devoti concorre ad alleggerire il lavoro dei portatori.

Al grido di “Viva Maria” alle dieci in punto si avvia la processione.
Un variopinto serpente s’inerpica per i ripidi tornanti che portano sulla collina dove sorge la città; con un’unica sosta, nella parte alta della collina accanto ad un’edicola sacra dedicata a S. Giorgio, che ha la doppia funzione di far riposare i portatori e di celebrare un breve rito religioso.
Il tragitto dal Santuario alla piazza Duomo dura un’ora esatta. Da sempre come ricordano gli anziani. Come uguali sono i rituali della successiva processione per le vie cittadine che si svolge dopo pranzo (detta cuncursu) con la partecipazione delle quattro confraternite di S. Vito, S. Giovanni, S. Filippo e del Salvatore i cui stendardi riccamente ricamati in oro precedono il simulacro.

Quindi la Statua viene posta sull’altare maggiore riccamente addobbato con fiori, ceri e festoni di velluto rosso, dove resta per i successivi nove giorni del novenario. Anch’esso regolato da antiche consuetudini che assegnano la gestione di ciascun giorno ad una categoria sociale. Il Lunedì coltivatori e venditori di ortaggi (urtulani e putiari), il Martedì i mugnai (mulinari), il Mercoledì le donne (fimmini), il Giovedì i pastori (picurari), il Venerdì gli artigiani (masci), il Sabato i braccianti agricoli (iurnatari), la Domenica gli apicultori (vasciddari), il Lunedì successivo gli agricoltori (massari) e il Martedì, infine, i lettighieri e gli staffieri (vurdunari).

Le connotazioni di festa barocca (con predominanza dell’effetto scenico, della rappresentazione e del concorso della parte “più scelta”, nobili e categorie professionali) deriva dalla organizzazione settecentesca, propugnata, come già detto, dal missionario gesuita, P. Antonino Finocchio da Francavilla, che dedicò gran parte della sua vita all’organizzazione dei riti e alla trasformazione di una chiesetta campestre in luogo di culto regionale.

Come primo atto, spostò la processione dal pomeriggio al mattino, poi incentivò la magnificenza del novenario, anche con l’intervento organizzativo ed economico della famiglia dei baroni Montesano, a lui amica, che si assunse parte degli oneri. Spostando quindi la gestione della festa, dal popolo all’aristocrazia e al potere civile (il Municipio si assunse parte delle spese). Introdusse quelle rappresentazioni in voga allora e che piacevano tanto all’aristocrazia, ma che il popolo non disdegnava, che erano le Azioni Sacre (o Oratori Sacri). La cui composizione era affidata, di anno in anno, ad esperti musicisti ed a scrittori sacri, per quanto riguardava il testo.

Il maggior splendore si ebbe tra metà settecento e fine secolo quando, il senato chiaramontano, la famiglia Montesano e la commissione per i festeggiamenti, si premurarono di far giungere da Catania tenori di grido e musicisti professionisti. Ed ancora a metà del secolo successivo, autore del testo di una di queste azioni sacre, era l’illustre Serafino Amabile Guastella; e sul finire dell’ottocento, un suo discepolo letterato e poeta, il Barone Saverio Nicastro del Lago, si onorava di averne composto un paio.

Ritornava, di lì a poco, ad essere festa popolare e, dal dopoguerra, subentravano ai notabili e alla famiglia Montesano, i devoti borghesi e massari. La festa non cessava di essere l’appuntamento religioso principale per i chiaramontani, per i devoti dei paesi vicini, per gli emigranti che in quell’occasione, invece che nel periodo estivo delle ferie, tornavano nella loro città a testimoniare fede e devozione alla patrona.

Ancor oggi sono molti coloro che per partecipare alla festa giungono dai paesi europei e persino dall’America e dall’Australia, dove emigrarono e stabilmente risiedono; ancor più sono coloro che provengono dai paesi e dalle province vicine. Questo saldo vincolo che unisce i residenti a coloro che son dovuti andar via e tutti insieme accomuna nella fede e devozione, è significativo della saldezza del rito che, da un lontano passato, inalterato si replica anno dopo anno.


