di Letizia Dimartino
Mia nonna andava a Milano a trovare i suoi figli che ormai vi vivevano e portava spesso anche me. Appena si sedeva cominciava a parlare con gli altri viaggiatori: iniziava il racconto della sua vita. Un setting diremmo oggi. Lei ne gioiva. Ogni fatto aveva particolari e descrizioni. Attraversavamo lo stretto di Messina e lei era nella prima fase, quella del terremoto famoso. Vicino Milano finiva in bellezza dicendo dei figli e del loro valore. Ma intanto lungo la Calabria tirava fuori il pane con le cotolette profumate di fritto e una bottiglietta di vino rosso. Poi dava da mangiare al gatto siamese che stava in una cassettina di legno e attraverso la grata gli porgeva polpettine preparate da lei appositamente, il gatto miagolava in maniera lugubre e prolungata, i suoi occhi azzurri si intravedevano.
Andavo al gabinetto perché si faceva notte, un sapone liquido e odorosissimo e gli strattoni lungo il corridoio con gli uomini che fumavano al finestrino, folate di vento entravano, rabbrividivo. Poi si spegnava la luce e si accendeva una lampadina viola azzurra ed eravamo pronti per il sonno. Mettevamo un piccolo e piatto cuscino sotto la testa, le voci dei viaggiatori negli scompartimenti si facevano più basse, si udivano i pianti dei bambini e il dialetto delle donne esasperate.
Mia nonna non sapeva tacere ma poi tutti dormivano con le bocche semi aperte. Io guardavo, dietro la tenda pesante e unta, i paesi e i palazzi nella oscurità. Pioveva, grosse gocce sui vetri scivolavano. Alle stazioni importanti l’altoparlante ci diceva dove eravamo, pensavo alle città che non si vedevano e che avrei voluto mie. Mi veniva una malinconia, ero sempre sveglia, il puzzo di tutti, le sigarette accese nel buio. Mi guardavo negli specchi appesi, le valigie accatastate, i neonati piangenti. Volevo vivere, giungere dove il treno ci portava. Lampi nel cielo e una piccola paura. Il viaggio.