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Oggi, 25 marzo, è il Dantedì, ovvero il giorno di Dante. Celebriamo il Sommo Poeta proprio nella data di oggi perché la si riconosce come l’inizio del viaggio nell’aldilà descritto nella “Divina Commedia“. Quest’anno la ricorrenza assume anche una valenza simbolica particolarmente significativa, perché cade in occasione del VII centenario della morte del padre della lingua italiana. Di seguito il contributo del nostro blog a firma di Nunzio Spina. Buona lettura!


di Nunzio Spina

Di nostra vita a la mità di strata
io mi truvai dintra ’na terra scura,
avena già la dritta via sgarrata.

Ah quanta a discrivillu è cosa dura
’stu voscu ’ntricatizzu ed aspru e forti,
ca a pinsallu mi torna la paura!

Giovanni Girgenti, scrittore dialettale siciliano del Novecento, intraprendeva così il suo cammino nell’Inferno dantesco. E di terzine in terzine procedeva – col passo sicuro e incisivo delle proprie risorse linguistiche – a ricalcare l’intero tragitto che il Sommo Poeta aveva percorso per comporre la sua opera immortale.

Nella giornata del “Dantedì”, quel 25 marzo celebrato come data d’inizio del viaggio oltremondano (era l’anno 1300), riaffiorano i versi di questa singolare e pregevole traduzione della Divina Commedia. Dall’italiano al siciliano; o – se vogliamo metterci una punta di orgoglio – dal volgare fiorentino a quella lingua che in Sicilia aveva origini ancora più lontane, diretta discendente del latino volgare, e che dai primi anni del XIII secolo aveva poi diffuso il suo stile letterario lungo la Penisola.

Compositore umile ma di grande cultura accademica e quanto mai prolifico, Giovanni Girgenti; un artista la cui importanza avrebbe bisogno, probabilmente, di essere perennemente rivalutata. Nato a Bagheria il 1° gennaio del 1897, ha dedicato buona parte dei suoi 82 anni alla lettura e alla scrittura.

Il dialetto siciliano come strumento di linguaggio per meglio trasmettere le proprie idee e le proprie emozioni; e, soprattutto, per arrivare in maniera più diretta e comprensibile al cuore della gente, di qualsiasi ceto sociale. Il che non voleva dire un impoverimento del lessico, perché al contrario era evidente il suo intento di trovare la corretta costruzione del periodo, di ricercare il termine più appropriato.

Giovanni Girgenti

Era questo lo stile delle sue novelle e delle sue poesie (davvero una raccolta cospicua), molte delle quali riconducibili a episodi della vita di tutti giorni; e lo era, ancor più, nelle sue traduzioni in siciliano di opere quali l’Eneide di Virgilio o i Sepolcri di Foscolo, oltre al poema di Dante.

Nella traduzione dialettale della Divina Commedia, lui stesso teneva a precisare di non aver voluto seguire un metodo scolastico, che si attenesse al cambio di ogni singola parola, ma piuttosto di avvalersi di forme espressive – anche apparentemente differenti dai versi originali – che mantenessero inalterato il concetto e il pathos del racconto. Tutto questo nel pieno rispetto della metrica, quasi che il linguaggio siciliano potesse fedelmente specchiarsi in una prosa così ricercata.

La firma di Giovanni Girgenti

Tantu è amaru, ca è pocu cchiù la morti;
ma a dimustrari zoccu nn’accanzavi,
tant’àutri cosi vi dirò ddà scorti.

Nun sacciu diri comu cci ’ncappavi,
tant’era, ’nsunnacchiatu nni ’ddu puntu,
quannu la strata giusta abbannunavi.

Fu modesto e rispettoso, Girgenti, nel cimentarsi in quest’opera. Ammiratore di Dante (“il quale sommo poeta io considero il principe dei poeti dialettali”), il suo proposito era quello di rendere ancor più popolare, facilitandone l’interpretazione, il messaggio spirituale del poema. Tanto è vero che sulla copertina del libro, come autore e titolo figurano sempre Dante Alighieri e “Divina Commedia”; mentre lui, Giovanni Girgenti, si concede solo un sottotitolo in cui precisa che si tratta, per l’appunto, di una “versione siciliana”. Con dedica – si legge nella breve introduzione – “ai Siciliani sparsi in tutto il mondo”.

Nel libro si contano più di 600 pagine, alleggerite qua e là dalle famose illustrazioni del pittore francese Gustave Dorè. Il testo è composto tutto da terzine di endecasillabi, ovviamente in vernacolo, col rigoroso rispetto della rima dantesca (cioè il primo col terzo, il secondo col primo e col terzo della terzina successiva). Possiamo solo provare a immaginare quanto impegno – e anche quanto sforzo di fantasia – sia stato richiesto a Girgenti nel portare a termine quella che può essere davvero considerata un’autentica impresa letteraria. La prima edizione è datata 1954; libreria editrice “Tumminelli” di Palermo, la città dove è morto, nel 1979.

Per un’opera come la Divina Commedia, che può vantare traduzioni in inglese, francese, spagnolo, tedesco, oltre che in latino e in vari dialetti, questa della versione siciliana può sicuramente rivendicare una propria dignità. La sua riscoperta sembra darci un’ulteriore conferma – sempre con quella punta di orgoglio che abbiamo confessato prima – di quanto la lingua siciliana abbia realmente contribuito alla nascita della letteratura italiana. Nella giornata del “Dantedì” questo angolo di sicilianità valeva proprio la pena di rispolverarlo.

La prima edizione del 1954

 

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