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L’articolo di oggi è tratto da un articolo di Pino Riggio, che fu appassionato ricercatore di storia locale, e pubblicato nel volumetto n.3 di “Senzatempo” del 2010, edito dal compianto Giovanni Bertucci.

di Redazione

Come altre cittadine della Contea di Modica, anche a Chiaramonte si svolgeva una fiera nel mese di giugno. Più precisamente in occasione della festa del Patrono San Vito. E fino all’inizio degli anni cinquanta del XX secolo fu una delle più importanti della zona.

Una fiera in grado di attrarre una grande massa di commercianti, acquirenti e venditori, che affluivano da buona parte della Sicilia. La principale mercanzia era costituita ovviamente da animali di ogni tipo e razza. Così padroni, mandriani o inservienti guidavano i loro greggi, o quelli loro affidati, aiutati da grossi cani, facendo schioccare le fruste e roteare i loro robusti bastoni attraverso le strade polverose dell’epoca.

Inzio XX secolo. La fiera nella via prof. Antonino Di Vita (già via Roma)

Era l’evento più importante dell’anno. Tale don Ciccino, personaggio eccentrico, era uno dei più grossi commercianti del secolo scorso che partecipava alla fiera. Scendeva dal territorio montagnoso a confine tra Monterosso e Chiaramonte, con oltre mille capi di bestiame e uno stuolo di mandriani. Sempre elegantemente vestito e con l’immancabile panama a coprire gli ormai radi capelli bianchi, aveva una grossa catena d’oro (attaccata ad un orologio, d’oro anch’esso) che gli pendeva dal gilet. Arrivava col suo carrozzino tirato da un cavallo bardato a dovere, con la criniera ricca di fiocchi colorati ed esibiva un elegante bastone con l’impugnatura d’argento a forma di grossa testa di levriero. Però era talmente corpulento da dover chiedere aiuto ai suoi mandriani ogni qual volta doveva scendere dalla vettura.

Inizio ‘900. Ancora in via prof. Antonino Di Vita

All’epoca alla quale ci si riferisce, la fiera si svolgeva soprattutto tra le principali strade della città. I guardiani dormivano all’aperto riparandosi dal freddo notturno con ampi mantelli. Mentre “firuoti”, commercianti, proprietari e sensali preferivano alloggiare presso una modesta locanda o presso qualche “funnuco”. Bettole e osterie restavano aperte giorno e notte per servire da bere dell’ottimo vino locale e qualche pasto caldo. In quei giorni molti locali terranei venivano trasformati in occasionali negozi per la vendita di merce d’ogni tipo: dalle derrate alimentari alle stoffe, dalle selle alle briglie, alle scarpe da lavoro, etc. Molti commercianti forestieri invece prendevano in affitto “dammusi” adatti per la vendita di cuoiame, “bummuli”, fornacelle in ferro per cuocere a carbone, pentole in rame ed altro ancora.

Era parecchio caratteristica la compravendita dei capi di bestiame. Fra venditori ed acquirente s’intrometteva l’immancabile sensale che, ad un certo punto della contrattazione, togliendo dalle mani del compratore la caparra, la poneva nelle mani del venditore, mettendo d’accordo i due contendenti e convincendo ciascuno dei due di aver fatto un ottimo affare. Va da sé che il migliore affare era stato senz’altro il suo, intascando la “sinsalia” senza rischiare alcun capitale.

La fiera in Corso Umberto

L’acquisto di maiali risultava particolarmente conveniente, potendo essere nutriti con cibi poveri (“canigghia”), per questo erano gli unici animali trattati anche da chi non aveva alcuna attività agricola o di allevamento. Poi, nel periodo di Carnevale o in qualche altra importante occasione, immancabilmente diventavano i protagonisti, loro malgrado, delle tavole imbandite a festa.

Del maiale non si buttava niente. Si sfruttava la pancetta per lo stufato, carne e lardo per la salsiccia, le ossa per la gelatina e si ricavavano anche gustose costate. Con le interiora si faceva “frittami” (piatto forte ed ipercalorico), dal grasso si otteneva il “saime” (utilizzato per la lavorazione dei dolci) e dell’ottimo lardo da salare, oltre alle cotenne da cuocere per dare più gusto ai legumi. Col sangue e le budella si otteneva il “sancieli” (insaccato tipico) e anche le setole utili ai calzolai per cucire le tomaie delle scarpe alle suole.

Inizi ‘900. Ancora in Corso Umberto

I ragazzi però non potevano uscire di casa per paura degli animali che stanziavano liberi nelle strade. E non era raro vedere qualche bestia imbizzarrita con i poveri mandriani che faticavano non poco per ridurli all’obbedienza. L’igiene era quella che poteva essere per i tempi e in quelle condizioni. Gli escrementi si moltiplicavano sulle strade e si sperava in un acquazzone salvifico. Altrimenti, man mano che essiccavano, erano portati via dai quattro spazzini che servivano tutto il paese: compreso il conduttore del carretto trasporta rifiuti e trainato da un vecchio asino pieno di piaghe. Per proteggerlo dalle insidie delle mosche, il povero massa Vanni (il proprietario), gli aveva confezionato appositi calzoni sia per le zampe anteriori che per quelle posteriori, usando dei vecchi pantaloni da uomo.

La fiera si svolgeva tra le strade di accesso all’abitato, le strade del centro e tra piazze e piazzette, compreso il piano della chiesa di San Vito, nel cui onore la fiera era stata autorizzata, nella notte dei tempi, dal Conte di Modica.
A questo punto è il caso di fare un lungo passo indietro nel tempo. Con l’espandersi dell’abitato oltre le mura che cingevano il castello, le prime abitazioni furono costruite lungo il pendio della collina sottostante rivolto verso mezzogiorno, in direzione della vallata del Ferriero. Proprio nella parte periferica di questo insediamento, rivolta verso sud-ovest, sorse la chiesa dedicata a San Lorenzo, già patrono della vecchia e distrutta Gulfi (1299).

Negli anni tra il 1522 al 1530 la Sicilia fu afflitta dalla peste e fu durante questo periodo che i chiaramontani si affidarono alla protezione di San Vito perché li preservasse da quell’orribile piaga. Allo scopo lo elessero nuovo patrono e gli dedicarono la chiesetta del vecchio San Lorenzo (a sua volta esautorato dalle funzioni di patrono e spogliato del suo tempio).

La chiesa di San Vito a inizio XX sec.

La chiesa di San Vito, negli anni a seguire, fu più volte ampliata, abbellita con pregevoli stucchi, marmi e opere pittoriche. E risulta che bel 1572, su richiesta dei rettori della chiesa, fu autorizzata dal Conte di Modica una fiera della durata di otto giorni nella prima quindicina di giugno che godeva del privilegio della cosiddetta “fiera franca”. Ovvero si concedeva l’esenzione del dazio su tutta la merce acquistata o venduta in essa. Ovviamente ciò comportava enormi vantaggi economici alla città, perché favoriva la presenza massiccia di molti operatori commerciali. Oltre alla possibilità, per la cittadinanza, di disporre di mercanzie spesso irreperibili nel territorio: derrate varie, attrezzi agricoli, tessuti, oggetti preziosi e animali di ogni tipo.

Spazio antistante il convento dei Cappuccini e la Chiesa del Carmelo

Fu presso il Notaio Pietro Trindullo di Modica, il 27 febbraio 1573, che i rettori della chiesa di San Vito, Filippo Cannizzo (o Canniczo o Cannecio), Nicola Ferrauto ed Augusto Lo Cutello, stipularono con Don Francisco Beluis et Moncada, governatore della Contea, e lppollto Sancino, procuratore generale del Conte Luigi Il Enriquez de Caprera, un contratto per la concessione della fiera franca di otto giorni a decorrere dal 13 fino al 20 giugno di ogni anno. Si stabilì inoltre che la manifestazione doveva tenersi “incominciando di lo mulino Suprano di lo magnifico Cesare Cannizzo, nexi a la casa di Antonio Catanisi e tira la carrera (lungo il Corso) et nexi a la casa di lulio di Minardo et poi tira la carrera e includi la venerabile Ecclesia sub vocabulo Sancte Marie,…et va lo valluni et ritorna a lo ditto molino di lo magnifico Cesare Cannizzo”.

Mons. Torres, vescovo della diocesi di Siracusa, nel 1616, ordinò di doversi celebrare la festa ogni anno il giorno quindici del mese di giugno. Ma per comodità della popolazione, per la maggior parte dedita all’agricoltura, fu stabilito di effettuarsi la festa, con processione, l’ultima domenica del mese di agosto. Quando i campi richiedevano minore lavoro (pur lasciando la festa liturgica alla vecchia data).

Dunque una lunghissima storia archiviata per sempre dal progresso. È il destino di ogni fenomeno umano. Rimane però la folcloristica festa del patrono San Vito con la sua processione e la sua liturgia. Della fiera rimangono le poche foto risalenti ai primi del secolo XXº e la memoria, finché qualcuno la coltiverà.

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