ovvero
Datemi una pillola e solleverò il mondo (degli scacchi).
di Giulia Cultrera
Da Oliver Twist a Harry Potter, il principio è sempre lo stesso: essere un bimbo orfano, disprezzato e maltrattato, è un requisito fondamentale per diventare il protagonista di una storia eccezionale. I traumi infantili sono sempre un ottimo punto di partenza per delineare un personaggio che, a suon di tentativi, fallimenti e successi, riuscirà a trovare il proprio posto nel mondo.
Evidentemente, da qualche parte esisterà un centro di reclutamento specializzato nel selezionare tutti coloro che rientrano in questi parametri, scartando a priori i bambini non problematici o con una serena condizione familiare alle spalle.
Non è da meno Beth Harmon: orfana taciturna e solitaria di giorno, dipendente da psicofarmaci e giocatrice di scacchi con il soffitto, la notte. Non è ben chiaro quando trovi il tempo per dormire o per seguire le lezioni, ancor meno come sia possibile che nessuno noti mai le sue assenze durante le ore scolastiche.
Il fair play in questo show raggiunge livelli altissimi: gli avversari accettano sempre sportivamente la sconfitta, anzi, più vengono maltrattati e sfruttati da Beth, più si adoperano per aiutarla e sostenerla.
Lo spettatore è piacevolmente trascinato in un’ambientazione anni ’50 e ’60 studiata in ogni minimo dettaglio, dall’arredamento ai costumi e agli accessori, davvero incantevoli. È impossibile guardare la serie senza quasi desiderare di essere nati in quel periodo storico.
E per rimanere in ambito di moda, La regina degli scacchi apre una nuova fase: se con i cartoni Disney e i fumetti, tutti desideravano avere in casa dalmata, pesci pagliaccio o pesci chirurgo – qualcuno provava addirittura a farsi mordere da un ragno, ma con scarsi risultati – la tendenza del momento è apprendere i rudimenti scacchistici.
Per lo meno, è più facile imparare a giocare a scacchi che ricevere la tanto desiderata lettera per Hogwarts.