di Giuseppe Cultrera
Nelle sere d’inverno del tempo andato, quando ancora la luce elettrica e la televisione non avevano accorciato la notte e il sonno era preceduto da una frugale cena e un breve spazio per i discorsi dei «grandi» e i racconti per i piccoli, un lume tremolante illuminava il volto ispirato del narratore (una nonna o un adulto «che aveva sentito raccontare») evocante vicende mitiche o inquietanti presenze. E i piccoli, ma non solo loro, trattenevano il fiato rapiti e impauriti dai mostri evocati, attratti dai tesori nascosti, dalle presenze benefiche e malefiche aleggianti. I più grandi, ovviamente, davano a intendere che molte di queste storie fossero frutto di fantasia, inventate da poeti o buontemponi per togliere il sonno ai bambini e alimentare speranze di facili arricchimenti nei più ingenui. Anche se continuavano ad attribuire le improvvise e inspiegabili fortune di alcuni del paese al fatto che avevano «preso una trovatura».

Quella di trovare un tesoro nascosto, magari sottoponendosi a un difficile rituale, era speranza covata e alimentata nel tempo passato. E non soltanto: se ancora in tempi recenti cercatori di tesori hanno deturpato alcune reliquie del passato ritenute dalla credenza popolare sito ideale della «trovatura». Inutile e controproducente la lettura storica di tali miti e leggende sorte in epoca araba e accresciuti dall’immaginario popolare e contadino nei secoli successivi!
Ma lasciamo da parte le analisi razionali o scientifiche e veniamo a qualcuno di questi racconti più ricorrenti nella nostra area.
Ragusa, oggi capoluogo di provincia, nel passato fu una delle principali città di questa parte della Sicilia sud-orientale e il racconto misterioso che segue ha radici nella sua storia antica e medioevale. Protagonista è il conte Bernardo Cabrera, ed è citato anche dal Pitré nelle sue ‘Fiabe e leggende popolari’.

«Quando i Saraceni furono costretti a fuggire dalla Sicilia, uno dei capi fuse tutto l’oro che possedeva e ne formò una capra e due capretti e incantandoli in una grotta, volle che il tesoro si aprisse a quell’uomo che avesse baciato la soglia della grotta.
Ora avvenne una volta che un soldato di nome Bernardo Caprera, essendo a caccia per quelle contrade, inseguì un porco selvatico: e siccome il porco era entrato nella grotta, Caprera, inseguendolo cadde sul limitare dandovi sopra la bocca.
Ed ecco che sente dei belati e nel tempo stesso vengono fuori dalla soglia della grotta la capra e i capretti d’oro. Il Caprera se li porta a Palermo, e inginocchiandosi innanzi al re, glieli offre; e il re, volendolo meritare, gli dice:
“Alzati, o Conte Caprera!
Grazie, maestà; ma non posso alzarmi da terra.
Alzati, o capitano generale di tutte le mie truppe!
Grazie maestà, ma non posso alzarmi.
Alzati o conte di Modica!
Grazie, maestà!”
E allora si alzò perché non solo era divenuto conte e capitano generale, ma anche conte di Modica! Il re però non godé di quel tesoro, perché i tesori incantati non possono regalarsi; e la capra e i due caprettini tornarono nella grotta».

Bernardo Caprera, o Cabrera nella accezione più comune, è personaggio storico vissuto nel secolo XIV e investito della contea di Modica, al posto di Andrea Chiaramonte condannato a morte da re Martino per tradimento.
Lo stesso re volle che il suo generale delle truppe di terra e di mare, artefice della sconfitta del conte ribelle, ne prendesse la carica e i beni.
Nello stemma del Cabrera, probabilmente come riferimento al nome, figura una capra. E chi vuole accertarlo può visitare la sua tomba, all’interno della chiesa di S. Giorgio dove il conte riposa dal 1423, sotto una lapide raffigurante il suo stemma.

Come non è difficile vedere la grotta denominata Capra d’oro ubicata lungo la cava dell’Irminio, a un paio di chilometri da Ragusa, sul fianco di una montagna scoscesa. Il profilo della grotta fa pensare a una capra accovacciata e il colore rosato della pietra al metallo prezioso. Se poi il curioso sceglie il momento del tramonto non avrà bisogno di immaginazione.
Questa la grotta: il tesoro, per quello che sappiamo dalla tradizione popolare, non è stato appannaggio di altri. Aspetta, probabilmente, qualcuno non soltanto ardimentoso ma anche esperto dei riti e delle regole connessi al ritrovamento di una “trovatura”.
2 Comments
Senza nulla togliere alla modalità comunicativa della narrazione, il rispetto delle fonti impone una precisazione. La leggenda popolare della Capra d’oro, narrata a Serafino Amabile Guastella dal cocchiere Antonino Roccalumera, fu da lui inviata a Giuseppe Pitrè con lettera datata Modica 14 novembre 1883 e che il medico palermitano volle riportarla nell’opera del 1888 “Fiabe e leggende popolari siciliane” (pag.381). Forma il volume XVIII della Biblioteca delle Tradizioni popolari siciliane e solo il titolo dato dallo stesso Pitrè è in dialetto: “La grutta di Capra d’oru”.
Trovo disinteressatamente giusto difendere questa guastelleria . Ciao.