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di Luigi Lombardo

Augusta ha in parte dismesso, come mi pare “naturale”, molte delle sue antiche e ancestrali tradizioni popolari e obliterato l’insieme delle credenze connesse, come ad esempio una che mi sembra la più singolare come modalità di esecuzione, seppur comune al mondo folklorico siciliano: il “culto” delle “Belle Signore” (il maiuscolo è d’obbligo).

Henry Fuseli, Three Weird Sisters from Macbeth, 1785

Lasciamo su questa credenza la parola allo storico locale Sebastiano Salomone (Storia di Augusta, 1905):

«All’angolo della muraglia che dava sulla via Maestra (oggi Principe Umberto) c’era una cappella dedicata alla Madonna, e accanto c’era stato fatto un buco, nel quale i vicini devoti collocavano ogni sera una lampada, appunto da quel buco ogni notte allo scoccar dei cento colpi dell’orologio, venivano fuori sette figure di giovani donne, bellissime nella parte anteriore dalla testa ai piedi, orrende e vuote come una canna spaccata a metà, nella parte posteriore di tutto il corpo. Esse, legate mano per mano, occupavano la larghezza della via, e saltellanti la percorrevano da un capo all’altro mormorando: luni, marti e miercuri: tri / ioviri, venniri e sabatu: seiE chiunque si imbatteva colle belle signore doveva correre con esse e pronunciare le stesse parole. Così se le ingraziava e poteva ottenerne favori senza fine …».

Genia loci, numi tutelari e insieme terribili vendicatrici, le Belle Signore ripetono un cliché mitico assai diffuso in provincia e altrove in ogni parte della Sicilia: sono conosciute infatti anche col nome di patruna i loca o anchi (Palazzolo) ronni i casa, esseri soprannaturali, di origine ctonia, matriarcali e dominanti, legati al luogo e che l’uomo è tenuto a rispettare, così come deve curare i luoghi dove esse abitano (l’universo ctonio), di cui sono padrone, esorcizzando e magicamente “addolcendole” anche con offerte di cibo e di alimenti: in questo modo l’uomo imparerà a rispettare i luoghi delle Signore, domesticando in modo prudente lo spazio senza alterarne definitivamente l’assetto originale.

Altro nome diffuso in area iblea era varcacanni (che deriva da vacua canna): erano donne-demoni che uscivano nei pomeriggi caldi d’estate a inquietare grandi e piccoli, passeggiando a filu i nona davanti alle case: i bambini ne erano terrorizzati, dal momento che a loro era stato detto che si manifestavano come lunghe ombre proiettate sulle volte imbiancate di casa, e persistendo fino a che il dio Morfeo non li faceva crollare nel dolce sonno del meriggio.

le belle signore

Altre si diceva, sempre a Palazzolo, che stazionavano nella chiesa madre avendo assunto le forme dei quattro evangelisti dipinti a fresco nelle volte della chiesa: non sembrò vero che durante il colera del 1831, adducendo motivi sanitari, furono cancellate con abbondanti passate di calce.

Tra i pupi dell’Opera esiste un personaggio alquanto inquietante che rinvia a questi modelli di femminino pauroso: la fata Alcina, che davanti ha sembianze di bella donna a seno nudo e con semplice perizoma ai fianchi, ma una volta girata con rapido movimento dell’asse di manovra del puparo malizioso, diveniva un orrido scheletro, rumoroso e minaccioso.

le belle signore
Rutilio Manetti, Ruggiero alla corte della maga Alcina, 1624

Tutto sembra discendere da un archetipo di origine mediterranea, che in ambito ellenico dà luogo alle figure della Lamia, orrida e sanguinaria signora vendicatrice e punitrice degli uomini.

Secondo il mito originale, Lamia era la bellissima regina della Libia, figlia di Belo: essa ebbe da Zeus il dono di levarsi gli occhi dalle orbite e rimetterli a proprio piacere. Presto Zeus si innamorò di lei provocando la rabbia di Era, che si vendicò uccidendo i figli che suo marito ebbe da Lamia. L’unica figlia ad essere risparmiata fu Scilla e forse anche la Sibilla che fu però accecata.

Lamia, lacerata dal dolore, iniziò a sfogarsi divorando i bambini delle altre madri, dei quali succhiava il sangue. Il suo comportamento innaturale fece in modo che la sua bellezza originaria si corrompesse, trasformandola in un essere di orribile aspetto, capace di mutare forma e apparire attraente per sedurre gli uomini, allo scopo di berne il sangue. La letteratura latina descrive le lamie come esseri mostruosi, capaci di ingoiare bambini e di restituirli ancora intatti se si squarcia loro il ventre.

Lamia nell’immaginario preraffaellita

Ma cosa sbalorditiva l’atteggiamento nei confronti della donna di potere, maga o strega, che fosse, è costellata di elementi ambigui, in grado di suscitare negli uomini paura e ammirazione al contempo.

Sempre a Palazzolo nel territorio attorno alla antica colonia di Akrai esisteva un luogo chiamato Lamias mazoi, le “mammelle di Lamia” (oggi monti Alleri), costituiti da due monticelli a forma appunto di seni, che si riteneva fossero i seni di Lamia, che divorava i passanti. Proprio in questo luogo persistono antiche credenze che riferiscono della presenza di spiritelli maligni chiamati cuppuliddi rrussi, in grado di impaurire i viandanti e di catturare quanti si attardavano la notte da quelle parti.

Quanta paura ha prodotto l’immaginario maschile di tipo solare, diurno e schizomorfo, al punto da configurare l’immagine della femminilità cruenta e negativamente avvalorata: la madre terribile, orchessa e strega, frutto di pulsioni edipiche mai sopite. Questa “Madre terribile” è il modello inconscio di tutte le streghe. L’opera di Goya, assai misogina nel suo insieme, trabocca formicola di caricature di vecchie decrepite e minacciose, streghe che venerano il grande becco, e preparano abominevoli banchetti. 

Francisco Goya, Il sabba delle streghe, 1797-98

Insomma, solo tardi la coscienza maschile si è liberata di stereotipi legati alla donna sirena e strega, fattucchiera e maga, angelo e demone, pervenendo ad una visione più equilibrata del femminile, salvo a ricadere di tanto in tanto (speriamo sempre più di rado) nelle antiche ancestrali paure delle “Belle signore” augustane.

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