di Giuseppe Cultrera
Adesso i luoghi che visse e calcò Vincenzo Rabito si tingono dell’inchiostro dei suoi libri e trasfigurati letterariamente ci appaiono icone comuni (o comunitarie?) che contraddistinguono il paesaggio urbano e quello della sottostante piana che degrada verso il mare d’occidente: le scale ripide del carrugghiu di S. Giovanni, che percorse più volte, a due scalini per volta, correndo transfuga alla casa materna; o l’angusto cortile della casa natia e il prospetto dell’abitazione acquistata con “i soldi dell’Africa” dove avrebbe voluto riposare fino alla vecchiaia, ma che dovette vendere per trasferirsi a Ragusa; le società di Mutuo soccorso in piazza delle quali, adulto, fu assiduo sodale; il balcone panoramico accanto alla Villa Comunale dal quale si vedono, nitide, la casetta cantoniera e il Santuario di Gulfi, l’uno accanto all’altra per l’effetto della distanza.
Frammenti del suo memoriale ed ora di parte del nostro vissuto condiviso e ritrovato, dentro quelle narrazioni compresse in ortografia e sintassi alchemiche e asimmetriche – un po’ come le opere grafiche di Escher – che lo hanno consegnato alla letteratura del Novecento prima con Terra Matta e ora con Il romanzo della vita passata, che ne è rilettura e sedimentazione. Chiaramonte Gulfi diviene, pertanto, l’imago mundi. E le vicende che vi si dipanano: archetipi e sintesi.

La Festacrante di domenica 16, ha animato la sua città non solo per festeggiare il secondo capitolo, fresco di stampa, ma per tributare – compaesani, amici acquisiti, studiosi e accademici – un attestato di simpatia all’analfabeta Rabito che ha svelato la magia della scrittura. Lo so che è un ossimoro. Ma non è l’unica asimmetria (Maurits Cornelis Escher, sorride).

«Lo sanno bene quelli che, dopo aver letto e, a volte, riletto “Terra matta” hanno contratto il virus della rabitìte – chiosa Chiara Ottaviano, una delle artefici della manifestazione – che ha indotto, ad esempio, il prof. David Moss, antropologo anglosassone, a penetrare i meandri del “rabitese” e dedicargli uno studio ancora in itinere; oppure il giovane attore milanese Stefano Panzeri a portare in scena, per capitoli, la vita “molto maletratata e molto travagliata e molto desprezata” assorbendo e restituendo al pubblico la particolare ortografia e musicalità della lingua. O ancor più la sua voce narrante, nel docufilm “Terramatta” di Costanza Quatriglio e mio, nutrita della conoscenza diretta dello scrittore o dall’aver frequentato casa sua a Ragusa, quale amico del figlio Giovanni: parlo del compianto Roberto Nobile, a cui abbiamo dedicato un commosso ricordo durante la festa.»

Ma penso pure al professore Saverio Senni, docente dell’università della Tuscia, approdato a Chiaramonte per svelare un varco poetico nel memoriale: parole e pause che sono versi e poesia. Da più lontano sono giunte Laura Brignon, Elena Gerola West e Anke Stark per volgere il “rabitese” in lingua francese, inglese e tedesca.
Le parole sono pietre diceva Carlo Levi. Quelle di don Vincenzo Rabito hanno la ruvida scorza e l’indefinita dolcezza degli altopiani iblei.
