“Penso che questo significhi che, per coloro che sono stati coinvolti in quella tragedia, il tempo abbia medicato le ferite. È giunto il momento del perdono. E per questo che vengono.”
di Lucia Battaglia
Hwang Sok-Yong, autore coreano tra i più importanti del panorama letterario mondiale, candidato al premio Nobel per la Letteratura nel 2005, con “L’ospite” ci offre un capolavoro dalle mille sfaccettature. Chi è l’ospite?
L’ospite, in Corea, è il nome con cui i contadini indicavano il morbo che arrivava dall’esterno, il vaiolo. L’ospite è qualcuno che viene da lontano come il reverendo Ryu Yo-Sop, pastore protestante che, coreano di nascita, torna in patria dopo più di 30 anni per visitare i luoghi della sua giovinezza. Luoghi dove ha vissuto ed è stato testimone e protagonista di violenze ed efferatezze inaudite.

L’ospite è anche l’ideologia che viene da lontano e che soppianta le tradizioni e la cultura di una nazione portandola ad allontanarsi dalle proprie radici. Quello che è successo in Corea, prima con la dominazione nipponica, che avrebbe voluto imporre lo Shintoismo, e poi con il Cristianesimo ed il Comunismo che, ospiti stranieri entrambi, si insinuano nell’antico tessuto culturale coreano scontrandosi e trascinando i coreani in una guerra fratricida, che è il tema centrale del libro.

L’ospite è pure il “fantasma” che arriva da un mondo parallelo e coesistente, senza soluzione di continuità. C’è un dialogo costante tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Le voci si mescolano e, sapientemente, l’autore da forma a dialoghi corali in cui le ragioni di vittime e carnefici ci vengono offerte in tutta la loro insensatezza ed inutilità. Sono proprio gli spiriti, elementi profondamente radicati nella cultura coreana, a fornire l’unica chiave di lettura possibile dei massacri avvenuti e ad offrire la via d’uscita da odio e recriminazioni: la pacificazione. Nel mondo dei morti, lontano da ideologie e passioni, il passato, con le sue giustificazioni alle violenze, non ha più alcuna importanza.

Hwang Sok-Yong ci coinvolge emotivamente e ci tiene in equilibrio tra simbolismo e realtà, tra livello onirico e quotidianità, tra spiritualità e violenza. Pone volutamente l’accento più sulla guerra civile che su quella di intervento straniero. Pagina di storia ancora oggi negata in Corea, in entrambe le Coree, perché è più facile pensare che efferatezze e morte siano attribuibili allo straniero.
L’autore costruisce il racconto con il ritmo e la successione propria dei riti sciamanici (la Corea è la terra dello Sciamanesimo) ed è attraverso questo rito, profondamente radicato nella cultura coreana, che si giunge alla catarsi. I 12 capitoli sono articolati come momenti del rito: dall’Esorcismo, alla Rinascita, alla Processione delle Anime fino al Congedo dell’ultimo capitolo.

L’elemento fantastico e quello Sciamanico contaminano con vividi tratti arcaici la storia contemporanea mantenendo così una salda continuità tra l’identità rituale antica e la modernità. Non c’è vera frattura dunque tra cultura arcaica e la storia, che sembra voler artificiosamente spezzare in due fazioni contrapposte un popolo e la sua stessa terra. Le centinaia di migliaia di morti in quella assurda guerra fratricida possono finalmente trovare la pace e impartire una lezione (di pace) anche ai vivi.
Il libro ha riscosso commenti favorevoli in seno al gruppo di lettura. Qualcuno ha sottolineato la crudezza di alcune descrizioni ritenendole eccessivamente cruente, altri hanno rilevato come fosse evidente la distanza culturale tra occidente e Corea, soprattutto in relazione al rapporto con la morte. La discussione si è finanche spostata sul piano filosofico e politico: è etico esportare religioni, ideologie o democrazie? È etico deviare forzosamente il corso dello sviluppo culturale dei popoli? Interrogativi che hanno accesso un vivace dibattito in un gruppo già esuberante!