di Luigi Lombardo
Come una antica divinità essa si invocava con speciali tiritere in siciliano, recitate dai bambini a mo’ di gioco, che originano, mutatis mutandis, da antichi culti lunari praticati ad esempio dalle sacerdotesse di Ecate o dalle Druidesse:
«Luna lunedda
fammi na cudduredda
fammilla bedda ranni
la porti a san Giuvanni…»

Questi frammenti di un folklore, ormai quasi del tutto dismesso, testimoniano che la luna e tutti i fenomeni naturali vengono visti dal pensiero mitologico come segni, simboli di realtà misteriose dove «s’annega il pensier mio», il pensiero di tutti.
In fondo, tuttavia, ad un’analisi più profonda si rileva come queste antichissime tradizioni siano in fondo delle forme che sostanziano lo sbigottimento davanti alla finis temporum, al tempo inesorabile bestia divoratrice, come il Kronos della mitologia che ingoiava il figlio: un’eroica resistenza contro il “drago” del tempo che declina, contro cui si leva la spada (o la lancia) dell’indomito San Giorgio.

«Vincere il drago», come l’antropologo Antonino Buttitta titola l’ultima sua opera postuma, è il tema fondante di ogni fatto culturale: trasformare il divenire rettilineo in una visione ciclica per cui tutto torna come la luna piena che fa cantare gli innamorati.
Sì perché la luna che vediamo nelle tradizioni popolari non è tanto un pianeta satellite, quanto un simbolo che l’immaginario collettivo ha elaborato.
Tale rielaborazione si fonda certo su fenomeni naturali: l’influenza sulle maree, le fasi lunari, la periodicità delle lunazioni e la cadenza mensile delle quattro fasi. A dispetto degli innamorati della «luna rossa me parl’e-tè», essa è simbolo ambiguo un po’ positivo un po’ negativo.

Lo abbiamo visto in questo rapido excursus delle tradizioni popolari iblee quali influssi malefici ha la luna sulle creature: l’immaginario costruisce tramite il simbolo lunare la paura dell’essere vivente davanti al divenire, allo scorrere inesorabile del tempo. Luogo della morte, segno del tempo, è normale vedere attribuire alla luna, e alla luna nera in particolare, una potenza malefica.
Nel Vangelo secondo Matteo si utilizza il verbo séléniazesthai (essere lunatico), quando si fa riferimento a possesso demoniaco. La luna è legata al femminile più negativo, alla paura del maschio per i mestrui femminili, al misoginismo dell’immaginario di fronte all’immagine femminile della “grande dea”, sia essa Artemide, Ishtar, Iside, Cibele.

Come è noto, nell’indoeuropeo luna, nella sua versione più antica (prima di divenire il latino losna parola etrusca), si relaziona alla radice «me-» di mensis, così come mene in greco, il sanscrito mas, l’avestico mah, il gotico menà, da cui il nostro misurare. Nel folklore europeo essa, sparendo per tre notti, dà luogo alla credenza della luna nera è inghiottita dal mostro. Il mostro, alla stregua del Kronos inghiottitore, fa sì che la luna sia «la grande epifania drammatica del tempo», del tempo irreversibile.
Tuttavia l’immaginario, partendo dalla parola misurare, trasforma le epifanie lunari, regolari e cadenzate in calendario, in ripetizione temporale, non più la finis temporum, ma l’instaurarsi del ciclo annuale di stampo lunare, formato da mesi di 29 giorni, per un totale di 354 giorni, che era in un lontano tempo la durata dell’anno lunare prima della precessione degli equinozi e dello spostamento dell’asse terrestre.
Il dramma lunare con i suoi fantasmi femminei (streghe, sirene, parche, Circe ecc.) volge al rassicurante ciclo lunare che si ripete introducendo nella cultura umana il complesso mitico “dell’eterno ritorno” (M. Eliade).
Il volto oscuro della luna volge al chiarore lunare degli innamorati della «luna rossa me parl’e té».
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Ineccepibile!