di Vito Castagna
CANTO IX (parte prima)
I moli di Dite vennero avvolti dalla nebbia spessa che risaliva dalla palude. I demoni e i dannati restarono asserragliati sulle mura, come intimoriti dalla nostra presenza. Dagli spalti si beffavano di noi, ma una inspiegabile paura divorava il petto dei cittadini infernali, forse frutto di quella loro tracotanza che aveva interrotto, con tanta alterigia, il nostro cammino.
Mi sedetti su una bitta screpolata e rivolsi lo sguardo verso il portale. Lentamente, i corpuscoli dei vapori smussarono i contorni degli oggetti e degli individui, rendendoli ancora più grotteschi. Le luci delle torce divennero macchie di colore giallognolo su quel bianco lattiginoso che cominciavamo a respirare. Anche Virgilio, nonostante la sua condizione, non riusciva a scorgere le mura.
Non gli restava che ascoltare, mentre camminava innervosito di fronte a me, le minacce e le offese dei diavoli. Era così insicuro che le sue parole precedenti sembravano del tutto false. Eppure, attendevamo il nostro salvatore, aggrappati a quella flebile speranza, perché non saremmo potuti tornare indietro, accerchiati dalla palude e dalla città. Nei gironi infernali vi si può solo scendere, precipitare nella rovina, in basso, fino all’abisso; tornare indietro, verso la luce del giorno, è impossibile.
«Dovremo pur vincere questa battaglia, a meno che non mi abbiano mentito… Basta dubitare… Lassù ci hanno promesso un aiuto. Vorrei che fosse già qui e che sbrecciasse queste mura!». La mia guida si mordeva le unghie, parlava fra sé, dubitava della parola di Dio. Poi, colto nuovamente il senno, ritrattava ogni timore e cercava di infondersi speranza. Nonostante tutto, di fronte a quella tempesta dell’animo, covavo in me una profonda paura. Cercavo di interpretare i suoi silenzi e li coloravo con una tinta di disfatta, forse più di quanto lo fossero realmente.
Nel tentativo di sviare quei pensieri nefasti, mi rivolsi a lui: «Mai nessuno dal primo cerchio discese in questo triste luogo?» e lui mi rispose: «E’ capitato di rado. In verità, io stesso feci questo cammino quando venni ingannato dalla maga Eritone. Ella mi fece entrare a Dite per far fuggire un’anima condannata nel cerchio dei Giudei, il punto più profondo dell’Inferno, il più lontano dal cielo. Ecco perché conosco questa strada ma, ahimè, non vi altra via se non quella che attraversa la città».
Mentre ascoltavo le sue parole, la nebbia cominciò a diradarsi. Venni attratto dalla torre più alta e dalle Furie infernali che si affacciavano da essa. Il loro corpo femmineo era ricoperto di sangue nero e cinto dalle spire verdi di idre fino al petto. La folta chioma era costituita da serpi che si annodavano fra loro e che gli accarezzavano la fronte e le tempie. Virgilio scoprì subito ciò che aveva rapito la mia attenzione, riconoscendo le meschine serve di Proserpina, la regina dell’Inferno: «Guarda le feroci Erinni. Quella alla sinistra è Megera, quella che piange a destra è Alletto, nel mezzo vi è Tesifone» poi, con lo sguardo fisso su di loro, tacque.
Dall’alto le tre si straziavano i seni nudi con le unghie, si battevano con violenza e urlavano contro di me: «O Medusa, o Medusa, vieni a noi! Tramutalo in pietra. Facemmo male a non vendicare l’azione di Teseo. Pagherà quel vivo là sotto questa colpa!».
Virgilio mi si parò innanzi ordinandomi di chiudere gli occhi: «Se guardassi la Gorgone, non potresti tornare nel mondo dei vivi!». Detto ciò, pose le sue mani sulle mie per occludere, con maggiore efficacia, il mio sguardo. Ad un tratto, ci colse un frastuono improvviso che scosse le viscere dello Stige facendone tremare le sponde. Sembrava un vento impetuoso che squassa i boschi e ne spezza i rami, che fiero fa fuggire gli armenti e i pastori. Atterriti, ci voltammo verso la palude.
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