di Redazione
Quando la morte colpisce un ragazzo della porta accanto, della nostra stessa comunità, ci toglie il fiato, ci stordisce. È umano che ogni genitore sia portato subito a pensare ai propri figli e ad immaginare cosa potrebbe accadere se, Dio non voglia, si venisse toccati da un lutto così straziante. Il pensiero stesso ci fa impazzire. Per questo ci stringiamo attorno ai familiari del giovane defunto ed empatizziamo con loro. È nella nostra natura di esseri umani e il lutto giustamente diventa di tutti, diventa della città intera.

Però mi chiedo per quale strano sofisma, più ci si allontana dalla propria comunità, dalla propria terra, dalla propria nazione, più l’empatia e la solidarietà vengono meno. Perché la morte, anche straziante, ingiusta, provocata, di un giovane trentenne che vive lontano da noi assume soltanto un significato di quasi normalità. Diventa un numero per le statistiche. Qualcosa a cui dedicare appena due secondi della nostra attenzione, se va bene e qualcuno ne parla, prima di rivolgerci ad altro, come se tutto rientrasse nell’ordine naturale delle cose. Non ci riguarda e basta.

Ci vengono in mente quei barconi in mezzo al mare stracarichi di giovani vite in cerca di un sogno di riscatto e mai arrivate a destinazione perché colati a picco con le loro carrette del mare. Figli di un dio minore per essere nati sulla sponda del Mediterraneo sbagliata e diventati cibo per i pesci soltanto per aver tentato di sfuggire alla disperazione.

Ci vengono in mente le giovani vite sacrificate nei teatri di guerra, o dei campi profughi sparsi in tutto il mondo dove si tira a campare in mancanza di tutto, speranza compresa. Dove si muore di qualsiasi cosa perché mancano cibo, acqua, medicine e medici. Dove una semplice infezione può fare la differenza tra la vita e la morte.
Abbiamo mai riflettuto che tutto questo avviene attorno a noi e nella nostra (quasi) più totale indifferenza?
