di Nunzio Spina
Il 4 agosto del 1918 risuonavano ancora, sul fronte alpino, i colpi di cannone della Prima Guerra Mondiale. Il Piave aveva appena “mormorato”, sbarrando la strada alle forze austro-ungariche, e le truppe tricolore cominciavano a scatenare la controffensiva, che presto le avrebbe portate all’affermazione definitiva di Vittorio Veneto, e all’ingresso trionfale a Trento e a Trieste.
Quel giorno, all’estremità opposta della Penisola, su uno stretto lembo della Sicilia circondato da acque marine e lacustri, un nugolo di fanciulli entrava – con altrettante eccitazione e fierezza – in un istituto appositamente destinato al loro benessere. Erano affetti da tubercolosi, da rachitismo, da anemia. Un filo di sentimento li univa a quella lontana trincea: erano tutti orfani di guerra o figli di combattenti.
Qualche anima pia si era preoccupata di loro. Li aveva visti razzolare nei quartieri poveri di Messina e dei centri vicini; esseri gracili, le gambe esili, il colorito pallido. Solo miseria e privazioni attorno a loro; e in più la tristezza procurata dalla perdita del padre, per anni o per sempre.

Non si poteva restare indifferenti. Avevano bisogno di cure, ma anche semplicemente di aria e ambienti puliti, di cibo sostanzioso, di sana attività fisica. E se per tutto questo ci si poteva avvalere dell’influsso salutare del sole e del mare, l’opera di assistenza sarebbe stata davvero propizia.
Nacque così, in quell’ultima calda estate della Grande Guerra, l’Ospizio Marino di Mortelle, nei pressi di Messina, su quella duna costiera che forma la punta nord-orientale della Sicilia.

Un triangolo ricco d’acqua e di vegetazione, con il lago di Ganzirri rivolto verso il Mar Jonio, quello di Torre Faro verso il Tirreno; e in mezzo a questi ultimi due, il ristretto lembo di terra e di spiaggia dove sorse l’istituto. Non altro che un baraccamento, all’inizio, con casotti in legno, tende e capanne. Ci sarebbe stato tempo di sostituirli con padiglioni in muratura, ma intanto – per quei piccoli infelici – le condizioni di igiene e di vivibilità erano decisamente superiori a quelle delle loro malsane abitazioni.

Chi si fece promotore di questo atto di beneficenza fu il dottor Domenico Faucello (che dalla sua Messina avrebbe forse meritato qualcosa in più di una modesta intestazione di via); medico umile ma intraprendente, uno di quelli che preferivano andare a cercarli, i pazienti, piuttosto che farsi raggiungere e implorare da loro.
Il suo occhio clinico aveva smascherato il male che si annidava in quei delicati corpicini; la sua mente – e il suo cuore anche – si erano agitati per trovare un rimedio che potesse offrire a loro una esistenza priva di sofferenze.

Qui però ci voleva un intervento della Provvidenza, che nella circostanza prese le sembianze della “Croce Rossa Americana”. Presente in tutta la penisola per prestare soccorso e aiuti di ogni genere in tempo di guerra, aveva eretto quei primi fabbricati sulla spiaggia messinese per il ricovero di militari convalescenti. Assolto questo compito, prima di rientrare in patria decise di lasciarli in dono – assieme a materiali, indumenti, generi alimentari e denaro – all’ente di carità che si sarebbe occupato dell’assistenza dei bambini.

Il contributo di alcuni nobili, di sangue e di animo, completò il quadro dei benefattori; in prima fila l’Ing. Giuseppe Bosurgi e la moglie Adriana Caneva,
La spiaggia di Mortelle – fino allora deserta, quasi in silenziosa contemplazione dell’azzurro Mar Tirreno antistante e delle verdi montagne calabresi che incombevano da un lato – cominciò da allora a prendere vita, a trasformarsi in un accogliente luogo di residenza, dove salute, educazione e allegria avrebbero riempito il vuoto di tanti bambini.

Il dott. Faucello sapeva già che in quel luogo da lui prescelto avrebbe potuto realizzare i suoi generosi intenti. Sapeva che la tubercolosi, male che a quei tempi infestava l’umanità senza avvalersi di terapie efficaci, si poteva solo prevenire o al massimo arrestare nel suo primo sviluppo. Lo stesso valeva per il rachitismo, o per altre malattie che in un organismo ancora debole trovavano terreno favorevole per aggredire.
“Salviamo il fanciullo, se vogliamo salvare l’umanità!”, era il suo motto. Pertanto, sarebbe stato un peccato che quell’acqua ricca di sali, quella brezza intrisa di iodio, quella sabbia fine, quel sole così luminoso – tutto là, a portata di mano – restassero risorse inutilizzate.

L’Ospizio Marino, così, si rivelò una sorta di clinica all’aperto, con una farmacia naturale al suo servizio. Si praticava la talassoterapia, con bagni e docce di acqua di mare; l’elioterapia, con esposizione al sole di tutto o di parte del corpo, il resto protetto all’ombra di apposite tende; la psammoterapia, con le cosiddette stufe di sabbia; gli impacchi di alghe marine, contenenti calcio, magnesio e potassio. E poi gli esercizi ginnici, la corsa e i salti su quella morbida spiaggia: un apparato muscolare che finalmente trovava libero sfogo al suo istinto.

Se soffiava il vento, l’effetto era quello di un massaggio rigenerante; per il resto, bastava respirarla quell’aria che sapeva di salsedine. D’estate era tutto più semplice; d’inverno, ci si adattava e ci si arrangiava (riscaldando l’acqua del mare, ad esempio).
L’impostazione data dal dott. Faucello lasciava poco spazio all’empirismo. I bambini venivano attentamente esaminati al loro ingresso (dati antropometrici, spirometria, misurazione della forza con dinamometro), e poi ripetutamente controllati. La pulizia della persona e degli ambienti faceva parte integrante del programma di cura; l’alimentazione, pure: sana e abbondante.

Ognuno aveva una sua cartella clinica, dove era facile verificare che quel fanciullo scarno, cereo, malfermo sulle gambe, già dopo poco tempo aveva preso vigore, colorito, tono muscolare; e gli si vedeva il sorriso stampato sul volto. Se non proprio del tutto guariti, tornavano a casa notevolmente migliorati, quasi che i familiari facevano fatica a riconoscerli.

Questa sorta di rigenerazione, nel fisico e nel morale, si otteneva grazie anche al fatto di ritrovarsi in una vera e propria cittadella più che in un luogo di cura. C’erano ampi locali per i dormitori, per i refettori, per il soggiorno; c’era soprattutto la scuola, con tanto di biblioteca. Le lezioni venivano per lo più impartite all’aperto, quando possibile, facendo anche passeggiate sul bagnasciuga, o servendosi della sabbia come lavagna. Studio misto a divertimento e terapia, quindi; senza riuscire a distinguere dove cominciasse l’utile e finisse il dilettevole. E se è vero che agli esami municipali, da candidati esterni, tutti risultavano promossi, vuol dire che la preparazione non era affatto approssimativa.

Per avviare i ragazzi all’inserimento nella società e nel lavoro, si pensò anche ad altro. Una scuola di rafia (taglio e cucito) si fece apprezzare per la confezione di tessuti di buona fattura. Altrettanto redditizio il laboratorio dove venivano fabbricati oggetti di ogni tipo (sedie, ceste, panieri). Ci si inventò persino la maniera di utilizzare le conchiglie che il mare rilasciava sulla spiaggia: furono messe lì, a decorare fermacarte, posacenere, calamai.

Chi comprava i prodotti di questa piccola attività artigianale, sapeva di fare anche del bene al prossimo bisognoso, oltre che soddisfare i propri gusti.
Le basi economiche dell’ente privato non erano solidissime, in realtà, e ogni tanto si sentiva la necessità di qualche rifornimento per andare avanti. La conseguenza era che non sempre il numero degli ospiti, nei primi anni di attività, corrispondeva al massimo della capienza possibile, che si aggirava sulle ottanta unità. A volte non si riusciva a mantenerne più di quaranta. Forse fu anche questo uno dei motivi che indusse il direttore Faucello a cercare altri mezzi di autosostentamento.

Sul terreno vicino, reso fertile dalle acque del lago, fece sorgere un vigneto, un orto, un allevamento di animali domestici (galline, conigli, anitre, colombe). Insomma, una colonia agricola in piena regola, dove a turno venivano indirizzati tutti i ragazzi; lo scopo principale era sempre quello di istruirli per un mestiere – diventare buoni contadini o buone massaie, in questo caso –, senza però tralasciare gli effetti benefici del contatto con la natura e del buon cibo. Come l’uva zibibbo che vi si produceva, quanto mai dolce e nutriente, ottima per l’ampeloterapia (dal greco “ampelos”, che significa vite): la praticavano già i popoli antichi per la sua azione disintossicante e ricostituente.

Con le proprie forze – si può dire – l’ospizio era così destinato a sopravvivere. Cessati i colpi di cannone della Prima guerra mondiale, venne poi il tempo del regime fascista; che volentieri si appropriava di queste iniziative umanitarie, assumendosene il patrocinio e favorendone lo sviluppo. I propositi di Faucello, che intendeva rendere pubblico l’istituto, e quelli di Bosurgi, che da tempo voleva dotarlo di una sede più solida e moderna, trovarono a quel punto il conveniente sostegno governativo. Nel 1927 venne intrapresa la costruzione in muratura, e due anni dopo – nel giorno della Befana, data non casuale – venne inaugurato in grande stile il ricostruito stabilimento, con la nuova, fatale, intestazione: Ospizio Marino “Benito Mussolini”.

Gli ideali puri e amorevoli del dott. Faucello, venuto purtroppo a mancare prima di quella cerimonia, si erano di fatto trasferiti in quelli – ugualmente passionali, seppur venati da fini propagandistici – del duce e della sua politica. Si enfatizzava la salute come difesa della razza, la “mens sana in corpore sano” per una gioventù forte e valorosa. Parlando degli adolescenti, Mussolini soleva dire: “Sono la Primavera della nostra stirpe, l’Aurora della nostra giornata, il segno infallibile della nostra Fede”.

Subentrarono gli enti statali a gestire i ricoveri: i consorzi antitubercolari, l’Opera nazionale maternità e infanzia, i comitati per orfani di guerra. L’ospizio venne adibito anche a colonia estiva – istituzione tanto cara al fascismo – per dare spazio, oltre che ai bambini malati, pure a coloro che avevano solo bisogno del contatto col mare per ritemprarsi. Erano centinaia e centinaia, adesso, a scorrazzare su quella spiaggia, ad affollare le infermerie, la palestra, i banchi di scuola. Tutto piacevole per loro, persino la sfilata in divisa militaresca (i bambini tra 9 e 14 anni avevano quelle da “balilla” e da “piccole italiane), come cerimoniale di regime voleva.

È ancora là lo stabilimento di Mortelle, sulla sottile striscia di terra che divide le acque del lago di Torre Faro da quelle del Mar Tirreno. Con la denominazione di Istituto Marino “Bosurgi Caneva”, in onore dei suoi lontani benefattori, ha attraversato varie fasi di utilizzo e di ristrutturazioni, passando nel frattempo sotto la tutela del Comune di Messina.

Attualmente si occupa di ricerca nell’ambito di disturbi del neuro-sviluppo (in particolare dell’autismo), attraverso metodologie e tecnologie all’avanguardia. Ancora bambini da accogliere e da assistere. Ancora mamme in trepidante attesa, nella speranza che i loro figli – come gli orfanelli tubercolotici o rachitici di una volta – escano da quella porta col sorriso sulle labbra!
Si ringrazia per la cortese disponibilità la Sig.ra Emilia Fotia, funzionario direttivo della Biblioteca Regionale “Giacomo Longo” di Messina
