di Vito Castagna
CANTO V (parte prima)
Un forte tuono rimbombò nell’antro. Rinsavii. Ci trovavamo nella sponda infernale e attorno a noi vi era buio e nebbia, tanto spessi che inghiottivano il mio sguardo spossato. Le urla di dolore ci investivano con violenza. Poi, svoltammo per un irto sentiero e quel rumore incessante e incomprensibile si affievolì prima di cessare del tutto.
Giunti in una radura, incontrammo numerose anime sedute su un prato, accasciate a terra, prive di forza. L’aria era accarezzata dai loro flebili sospiri. Tra di queste, avvolte da un bagliore bluastro, ci vennero incontro le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Essi ci guidarono tra le sette cerchie merlate del Limbo e tra i suoi labirinti plumbei, nei quali riposavano coloro che non avevano conosciuto Cristo. Dialogammo a lungo, ma non rivelerò quanto mi fu detto. Il ricordo mi è troppo intimo. Attraversato il castello, di fronte ad un portale ricoperto di edera, le nostre strade si divisero. Ci addentrammo nuovamente nell’oscurità, discendendo dal primo cerchio al secondo.
Una breccia sola permetteva di attraversare delle mura in rovina. Dinanzi ad essa, vi era accasciato su un trono Minosse, colui che esamina le colpe dei dannati e ne decide la pena. Le anime si inginocchiavano al suo cospetto e, piangendo, sussurravano i loro peccati al suo orecchio demoniaco. Dopo averli ascoltati, il giudice si avvinghiava, con la sua stessa coda serpentina, tante volte quanti sono i gironi che il dannato doveva discendere prima di soffrire in eterno.
Nonostante fossimo tra la calca, egli ci scorse e interruppe il suo compito, pose la mano squamosa sul volto di un dannato per zittirlo. Quest’ultimo rimase impassibile ad attendere il giudizio. «O tu, non fidarti di chi ti guida. Non farti ingannare dall’ampiezza di questa entrata. Uscire di qui non è facile come quel romano ti vuole far credere!».
Virgilio, ferito da quelle parole, rispose: «Perché continui a blaterare, Minosse? Non frapporti al nostro cammino. Così è stato deciso in Paradiso e, quindi, non proferire altra parola. Fai ciò che devi e lasciaci passare!»
Il demone mi guardò negli occhi. I suoi erano azzurri, attraversati verticalmente da un’orbita nerissima, nella quale si perdeva ogni bagliore di luce. Quello sguardo conteneva tutti i peccati dell’uomo, le confessioni udite e, nella oscura fenditura, il peso che albergava tra il cuore e le squame di chi venne costretto a giudicare. Distolsi gli occhi, incapace di sostenere quei macigni, poi le urla colpirono la parete con maggiore forza e una notte, ancora più spessa, ci avvolse.
Il luogo nel quale entrammo era sferzato da venti di tempesta che portavano con sé i dannati, schiantandoli tra le rocce aguzze con indicibile violenza. I miserabili piangevano e bestemmiavano Dio per quella pena senza riposo.
Capii che quello era il tormento dei lussuriosi, coloro che sottomisero la ragione al piacere. E come gli uccelli che quando si librano in volo formano un’ampia schiera, così quel vento avvinghiava i peccatori e li trasportava di qua, di là, di giù, di su. Aimè, non vi era alcuna speranza che si placasse.
«Maestro, chi sono quelle anime che la tempesta castiga?». Ed egli mi rispose: «Una di queste fu imperatrice. Ella rese lecita ogni sua depravazione, distruggendo qualsiasi forma di morale. È Semiramide, sposa di Nino, che governò la terra che oggi è retta dal Sultano. Un’altra è Didone che, abbandonata, si uccise per amore; poi vi sono Elena, Achille, Paride e Tristano». Continuò ad indicarmi più di mille altre ombre col dito e io, di quegli sventurati morti per un sentimento tanto forte, provai una profonda pietà.
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