di Antonio Incardona
Da dove nasce quell’invincibile pressappochismo che conduce i “superiori” vaticani, qualunque sia la cultura da cui provengono, ad affidarsi a monsignori “competenti” di comprovata e chiara inesperienza (a voler essere buoni) ogni volta che si tratti di gestire un mucchio impressionante di denaro?
Probabilmente da un fatto evidente: ridotto alla sua essenza fisica, nonostante la sua articolata architettura politica, il Vaticano rimane un quartiere romano, con i difetti dei quartieri romani.

Un monsignore di media età e di normale forma fisica può percorrere l’intero territorio dello Stato, partendo e tornando a Porta Sant’Anna, in quaranta minuti. Vista poi nella sua struttura socio-politica-economica tutta la “querelle” sui denari e i traffici opachi della “finanza con la tonaca” si riducono a un’elementare filosofia giuridica di stampo “familistico”.

Lo Stato non riscuote imposte, raccoglie contributi volontari e lasciti da tutto il mondo, e gestisce diverse attività commerciali in monopolio. In un certo senso, il regno temporale del Papa pratica (con identici e infausti esiti) lo stesso sistema socio-economico applicato nei kolchoz della defunta URSS. Se il Papa dovesse abolire lo IOR (argomento trito e ritrito), tra le altre cose, dovrebbe convincere anche i sudditi del suo Stato temporale (che accumulando diversi benefici percepiscono stipendi a quattro zeri mensili) ad accettare la tipica fiscalità degli stati contemporanei.

L’anagrafe “papalina” conta 794 “cittadini”, di cui 150 “residenti” all’estero, per servizio diplomatico e 600 residenti fittizi. Per trovare i contribuenti al Papa basterebbe decidere di togliere a questi ultimi, soprattutto italiani, l’alibi di scansare la tassazione del nostro Paese, peraltro limitata al 4% per i redditi prodotti all’estero. Ma riforma dopo riforma, Papa dopo Papa, queste aree di privilegio sono rimaste intoccabili, mentre la finanza vaticana continua imperterrita a fare i guai di sempre.
