di Nunzio Spina
Sognava a occhi aperti il dottor Ludwig Guttmann. Affacciato alla finestra del suo studio, nell’ospedale di Stoke Mandeville, puntava spesso lo sguardo sul cortile interno, dove i malati in carrozzina si concedevano una boccata d’aria, mentre il suo pensiero si spingeva oltre, cercando di escogitare cure sempre più efficaci. Era il direttore di quel centro medico nei pressi di Londra, aperto nel 1944 per l’assistenza di soggetti affetti da lesioni del midollo spinale, militari reduci dal fronte della Seconda guerra mondiale.
Un giorno rimase particolarmente sorpreso da quel che facevano alcuni di loro, e per una volta fu la vista a distoglierlo dalla mente, non il contrario. Vide che continuavano a lanciarsi un pallone dalle rispettive carrozzine; chinò leggermente il capo, abbassò gli occhiali sulla punta del naso, e poi riprese a sognare: quel gioco da passatempo poteva diventare una grande opportunità terapeutica.

Che il basket in carrozzina sia nato così, grazie a questa sorta di apparizione rivelatrice in un angolo di Inghilterra, è una tesi carica di suggestione; sicuramente più intrigante di quella – in un certo senso scontata – che riconosce piuttosto agli Stati Uniti d’America il merito di avere fatto da culla, oltre che al basket-ball, pure alla disciplina-figlia.
Il periodo, in entrambi i casi, è quello del secondo dopoguerra; e anche dall’altra parte dell’oceano risulterebbero essere stati i militari invalidi a cimentarsi, se è vero che la prima partita ufficiale di cui si ha notizia fu giocata nel 1945 presso la base navale di Coronado, in California. Due mondi paralleli e un intento comune. Ma se la storia ha preferito mitizzare il nome di Sir Guttmann un buon motivo c’è: fu lui a organizzare le prime manifestazioni ufficiali di basket in carrozzina (e più in generale di sport in carrozzina), favorendone la diffusione a livello mondiale e creando di fatto le basi per la istituzione delle Paralimpiadi.

Guttmann non ambiva al successo in campo sportivo agonistico. Il suo proposito mirava più che altro all’aspetto riabilitativo, alla possibilità che quel gioco potesse trasformarsi in fisioterapia. Seguendo la traiettoria del pallone scagliato da una carrozzina all’altra – che obbligava a spingere con le braccia, a sollevare il tronco, a mantenersi in equilibrio sulle ruote –, intuì subito che i suoi pazienti avrebbero potuto svolgere, con estrema disinvoltura, un’attività in grado di potenziare la muscolatura indenne, di aumentare la capacità respiratoria, di gestire meglio il mezzo meccanico. A quel punto, l’aggiunta di due canestri, per dare anche un’impronta di sana competizione, fu il tocco finale della sua intuizione.

Personaggio davvero singolare, questo dottor Guttmann, come del resto era stata la sua vita fino ad allora. Nato in una cittadina della Polonia nel 1899, primogenito di una famiglia di origine ebrea, l’irrefrenabile passione per la Medicina lo aveva portato già a 18 anni a frequentare un ospedale riservato agli infortunati sul lavoro; qui, il caso di un giovane minatore paralizzato dalla vita in giù a causa di una frattura della colonna, e lasciato morire in un busto gessato in seguito a una infezione, sconvolse il suo animo e gli procurò un senso di ribellione, mai sopito.

La futura carriera di neurologo lo vide inizialmente affermarsi a Breslavia, allora appartenente alla Germania, dove non avrebbe esitato a mettere radici se i primi sussulti di antisemitismo non lo avessero praticamente obbligato, nel 1939, a fuggire con moglie e figli in Inghilterra, accolto a Oxford per progetti di ricerca. Stavano per risuonare i primi colpi di cannone della Seconda guerra mondiale, e nel 1944 – a conflitto non ancora concluso – si contavano già a centinaia i combattenti vittime di paralisi. Il governo britannico, allora, decise di fondare il centro di Stoke Mandeville per i reduci con mielolesioni (in gran parte piloti della Royal Air Force), e di affidarne a Guttmann la direzione, incarico che avrebbe mantenuto fino al 1966.

Una triste condizione di impotenza aveva, fino a quell’epoca, accompagnato tutti i tentativi di migliorare la condizione di questi sventurati; molti morivano nelle prime settimane, i sopravvissuti erano destinati a un grado di invalidità che provocava solo sofferenza ed emarginazione. Guttmann continuava a studiare, sperimentare, mettere in pratica idee innovative. La sua missione aveva un unico scopo: recupero, non semplicemente assistenza, né tanto abbandono.
Bisognava innanzitutto combattere o prevenire le complicanze, tra affezioni respiratorie, infezioni, piaghe da decubito, depressione psichica; e poi magari cercare di sfruttare al meglio tutte le potenzialità fisiche residue. Ogni tanto lui si affacciava dalla finestra del suo studio, e si chiedeva cos’altro in più potesse fare per loro. La visione di quel pallone che rimbalzava di mano in mano ebbe probabilmente l’effetto di fare scattare una molla già carica.
L’intero ospedale di Stoke Mandeville si trasformò, così, in una palestra. In corsia i pazienti si passavano il pallone medicinale distesi sul proprio letto; nei corridoi si improvvisavano gimkane con le carrozzine; sul campetto allestito nell’ampio spazio esterno, tiri a canestro e partite senza fine. Il basket in carrozzina appassionava, e la resa in termini di progresso funzionale era di gran lunga superiore alle lunghe e noiose sedute di esercizi individuali praticati nel chiuso di un ambulatorio. Per non parlare dello spirito di amicizia che si riusciva a instaurare, e che risvegliava il piacere di tornare a sorridere alla vita.

Un modello esemplare, da diffondere e condividere; e qui l’opera di Guttmann fu davvero rilevante. Nell’estate del 1948, in concomitanza con le Olimpiadi di Londra, decise di organizzare una prima competizione ufficiale, proprio nel cortile dell’ospedale; solo sedici partecipanti e due discipline sportive, basket e tiro con l’arco, ma si rivelò l’inizio di una bella avventura. Da allora, l’appuntamento si rinnovò ogni anno, nel mese di luglio, con numeri sempre crescenti. Nel 1952, mentre si svolgevano le Olimpiadi di Helsinki, i Giochi di Stoke Mandeville – così ribattezzati – assunsero una etichetta internazionale: 130 furono soltanto i partecipanti stranieri, e alle discipline sportive in programma si aggiunsero i lanci dell’atletica leggera.

Lo sport per disabili aveva trovato ormai la sua identità e il suo tempio; l’ulteriore evoluzione, tuttavia, avrebbe condotto verso una dimensione più universale, quali si rivelarono le Paralimpiadi. L’artefice principale stavolta fu un medico italiano, Antonio Maglio, direttore del Centro Paraplegici “Villa Marina” di Ostia, struttura dell’INAIL.
Aveva introdotto lo sport in carrozzina per i suoi pazienti, facendoli anche partecipare alle manifestazioni di Stoke Mandeville, e fu lui a proporre a Guttmann – suo ispiratore e suo amico – di trasferire per una volta quei Giochi in Italia, approfittando della vicinanza con le Olimpiadi di Roma, nel settembre del 1960. Fu un evento memorabile. Negli impianti romani dell’Acqua Acetosa si radunarono più di 400 atleti in carrozzina, in rappresentanza di 21 nazioni, iscritti nelle gare di otto discipline: oltre a basket, tiro con l’arco e atletica, anche scherma, nuoto, tennistavolo, pentathlon.

Fu il primo esperimento – ben riuscito – di quelli che solo nel 1984 (in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles) avrebbero assunto la denominazione ufficiale di Giochi Paralimpici. Troppo tardi per gratificare di tale riconoscimento formale Ludwig Guttmann, venuto a mancare nel 1980, all’età di 81 anni. Il papà degli sport per disabili non poté neanche compiacersi del fatto che la sua nobile missione si sarebbe a poco a poco allargata agli individui affetti da qualsiasi forma di grave handicap, anatomico o funzionale. I Giochi Paralimpici di Tokyo, che si stanno disputando in questi giorni, sono l’ennesimo omaggio alla sua memoria.
