4.2
(5)

di Vito Castagna

II CANTO (parte prima)

Seguimmo il sentiero in un pomeriggio senza nuvole, poi il sole cominciò a calare e il cielo si tinse di striature violacee; dopo un’ora fummo avvolti dall’oscurità. Le parole di Virgilio rimbombavano nella mia testa ma non avevo osato aprir bocca. Intanto, la mia guida non si era voltata neanche una volta per accertarsi che la seguissi.

Questo nostro silenzio venne interrotto dal verso di numerosi animali notturni che cercavano disperatamente riparo tra le insenature del costone roccioso. Come avrei potuto sostenere quel terribile viaggio?

O muse, vi invoco e a voi mi affido. Beneditemi col vostro canto, permettetemi di scrivere quanto di meraviglioso vedranno i miei occhi. Questo pensiero mi diede il coraggio di rivolgermi a Virgilio.

«Poeta, sarò degno di affrontare questo viaggio? Tu dicesti che Enea raggiunse gli Inferi con le sue spoglie mortali e che ciò avvenne per volere di Dio. Le cose che lì apprese gli permisero di fondare Roma e il suo Impero e in quella sacra città Pietro edificò la sua Chiesa. Dimmi, come potrei percorrere lo stesso itinerario? Chi me lo concede, se io stesso non mi ritengo all’altezza? Temo che seguirti sia una follia! Perdona la mia franchezza, tu sei saggio, capirai certamente quello che non so esprimere a parole».

Come chi non desidera quello che prima bramava ardentemente per colpa del suo timore, avevo perso la forza di proseguire. Virgilio sembrava lievitare sulla pietraia e sulle radici, il vento, che si era alzato burrascoso, non scuoteva la sua antica veste. Si voltò verso di me e, nonostante le mie parole, i suoi lineamenti non si mostrarono turbati, come se conoscesse in anticipo quel tormento del mio cuore.

«So bene cosa provi. Il tuo animo è stato trafitto dalla paura, come una bestia che, irretita dalla sua immaginazione, schiuma e scalcia contro il fattore. Per infonderti coraggio ti dirò perché sono venuto a soccorrerti nella selva. Giacevo immoto tra coloro che non avevano goduto della verità divina, quando, ad un tratto, una voce femminile ruppe il silenzio nel labirinto plumbeo. Ella chiamava il mio nome. Capii di essere colui che cercava perché quando l’eco mi raggiunse percepii un leggero calore, un formicolio all’altezza del petto.

Per un solo istante sentii lo scorrere del tempo e la spessa corazza del torpore eterno cadde dal mio freddo sudario. Ricordai la mia infanzia, la voce di mia madre, l’odore dell’inchiostro sul papiro, l’ultima carezza che diedi prima di morire. Poi lei mi colse da terra, mi cinse a sé in un abbraccio e mi guardò negli occhi. Tu non riusciresti nemmeno ad immaginare la loro bellezza, lucevano come le stelle e fu allora che, oltre al tempo, provai una gioia così lontana e profonda che le lacrime sgorgarono dai miei occhi pieni di polvere.

Per un solo momento fu come nascere, il profumo di rosa della sua pelle scosse la mia eterna e imperturbabile condizione. Poi sfiorò le mie gambe fragili e mi mise in piedi. Mi sorresse qualche istante e, infine, fui in grado di reggermi sugli arti. Ero ancora stordito da quell’emozione e lei, leggendo il mio animo, parlò con la sua voce angelica per tranquillizzarmi.

CANTO I (SECONDA PARTE). CLICCA QUI

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