di Giuseppe Cultrera
«Comare che dice la carta che v’ha consegnato Don Vito Possibilimai?»
«Nenti cummari, è il certificato per le elizioni.»
Quando bussava a una porta, il messo comunale non sempre era foriero di belle nuove: a volte erano tasse, oppure era la cartolina del precetto militare per il figlio (che ora che si era fatto grande e forte era una grazia di Dio per la vigna e la campagna!) o era qualche incomodo, ché quelli del Comune non avendo altro da fare, si sprummèntavano sempre nuove cose.
Lui arrivava sussiegoso, si toglieva il cappello e con il dito alzato «Signora mia cara», incominciava… ma già l’interlocutore aveva aperto la porta e con un leggero inchino «S’accomodi Don Vito». Quanto gli piaceva quel don che condivideva con i possidenti e i notabili; meno la ‘ngiuria, che leggeva negli sguardi o percepiva sussurrata dietro una vetrata socchiusa. A una putiara che lo rincorreva agitando il foglio appena notificato e gridando «Sintìti don Vitu Possibilimai», a muso duro aveva replicato «di cognome faccio Ragusa. Don Vito Ragusa mi chiamo, egregia fruttivendola!»

La malcapitata, rossa e sudata, aveva balbettato «Scusati… ma iu crirìa… accussì mi dissiru… sugnu forestiera». In effetti quel lestofante di don Jano Pistafavi, il lattoniere del dammuso adiacente, quando la giovane forestiera aveva chiesto il nome del messo, che giorni prima le aveva notificato una ingiunzione del comune, aveva risposto serafico «don Vito Possibilimai si chiama. Vero signora Vironica?» rivolto alla dirimpettaia, ammiccando sornione. «Certo», fece quella (manco a dirlo!).
Giacca e cravatta, cappello elegante, loquela sciolta e in lingua italiana, don Vito Ragusa, messo comunale, faceva la sua bella figura. Era ben visto, per la sua disponibilità e solerzia, dal sindaco e dall’amministrazione e pertanto sempre presente nelle cerimonie pubbliche, dove dava sfoggio della propria “cultura” e intraprendenza.

Insomma, si sentiva parte di quella scelta cittadinanza che o per meriti o per diritti di sangue o per sagace contiguità con costoro, si elevava sopra la massa di poveri contadini e popolani adusi a sbarcare il lunario e a beccarsi tra loro come i polli della stia ro’ zu Paolu Causilìenti. Per questo quel soprannome che come la spada di Damocle lo sovrastava beffardo – “retaggio di povertà e atavico sottosviluppo” – lo indisponeva. E la gente sembrava avvedersene: lo leggeva nei loro occhi furbi, quando passava per strada, o saliva le scale del Palazzo di Città.
I monelli poi erano i più terribili: al suo passaggio a bocca chiusa sibilavano pss, psipsi, pisspiss, qualcuno un sincopato possblmai. Lui si inalberava, li inseguiva urlando «Ti ho conosciuto, so chi è tuo padre, vedrai stasera!». Ma era peggio, perché la gente accorreva e con finta deferenza «Cosa è stato don Vito, qualche monello vi ha mancato di rispetto?»
Possibile mai che un galantuomo che ha cercato in tutti i modi di conquistarsi uno spazio sociale ed una rispettabilità…

Massa Vito, il nonno, gli aveva procurato questa eredità ingombrante. Come? Era solito usare tale interlocuzione.
«Sapete oggi al mercato c’era poca roba.»
«Possibile mai?»
«Domani forse piove.»
«Possibilimai?»
«Non c’è più onestà.»
«Possibilimai.»
Poi divenne un intercalare:
«Certo che la gente è strana. Un giorno, possibilimai, è allegra; l’indomani, possibilimai, intrattabile.»
E così via. Tanto che qualcuno cominciò a indicarlo come u massa Vitu Possibilimai.
«Chi è il vostro vicino?»
«‘U Massa Vito Possibilimai.»
E il soprannome gli restò appioppato per tutta la sua vita restante. Non solo. Ma, come era ovvio, lo ereditarono i suoi figli e poi i figli di costoro, compreso don Vito, il messo comunale. I Possibilimai furono il ramo dei Ragusa con capostipite massaro Vito. E il suo approccio filosofico alla vita: di dubbio perenne.
Era avvenuto e avveniva per tanti altri gruppi famigliari: d’altronde nel secolo XVIII e XIX le famiglie erano meglio note colla ‘ngiuria (soprannome) che col cognome. Negli atti anagrafici ho rinvenuto spesso accanto al cognome, specie dei testimoni, l’indicazione inteso seguito dal soprannome.
Tale uso era comune anche negli atti notarili, nelle scritture private, nei contratti. Tanto che, a inizio secolo XX, il litografo e scrittore Giuseppe Maria Puccio (Chiaramonte 1852 – Ragusa 1937) ritenne opportuno approntare una Raccolta di soprannomi chiaramontani (1923) che ripropose in edizione più ampia nel 1928 col titolo di Raccolta di circa 650 soprannomi chiaramontani, utili a tutti.

Banner: Antico costume Chiaramontano: nobile massajo e contadino, litografia acquerellata di Giuseppe Puccio (1908).