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di Laura Castronovo Albanese

Ci sono azioni così ricorrenti nella nostra quotidianità che non capita spesso di farsi troppe domande al riguardo, le compiamo e basta, quotidianamente, senza pensarci troppo. C’è un’azione in particolare che compiamo tutti inevitabilmente almeno una volta al giorno: vestirsi. E con ciò si intende indossare degli indumenti, quindi sì, a meno che non viviate nel Giardino dell’Eden e indossiate almeno le mutande tutti i giorni, potreste chiedervi: chi ha fatto i miei vestiti? (per intenderci meglio: “Who made my clothes?”).armadio

È una domanda che avrete letto anche solo per sbaglio in preda allo scrolling sui social negli ultimi anni e che nasce dopo quello che viene considerato come il più letale cedimento strutturale accidentale nella storia umana moderna: mi riferisco al numero delle vittime che il 24 Aprile 2013 morirono sotto le macerie del Rana Plaza a Savar (Bangladesh), un edificio commerciale di otto piani con gravi problemi strutturali segnalati dai lavoratori delle fabbriche tessili che ne avevano chiesto la chiusura e l’evacuazione.

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Le macerie del Rana Plaza

La chiusura venne effettuata, ma esclusivamente per i negozi e la banca dei piani inferiori, mentre le fabbriche, che peraltro non potevano essere ospitate in quella struttura, dovettero rimanere aperte per non perdere i ritmi di un sistema veloce che, solo in quell’occasione, causò 1129 vittime.

Quel sistema si chiama Fast Fashion e non è solo una pratica che sfrutta la manodopera sottopagata delocalizzando le fasi di produzione più importanti nei paesi in via di sviluppo, ma contribuisce in maniera diretta all’inquinamento ambientale causato dall’industria tessile, considerata la seconda realtà più inquinante al mondo.

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Manodopera sottopagata nei Paesi in via di sviluppo

H&M, Zara, Primark, Benetton, Mango, Forever 21, Berskha sono solo alcune tra le catene d’abbigliamento più famose in tema di prezzi stracciati e “moda istantanea”, un modello applicato per la prima volta negli anni ’80 da Zara e che oggi produce una media di 24 collezioni l’anno (adesso prendetevi un attimo per capire bene cosa significhi presentare 24 collezioni l’anno).

Il sistema del Fast Fashion prevede che un capo diventi obsoleto nel giro di due settimane, motivo per cui si è diffusa negli ultimi anni l’idea che un indumento non possa essere indossato più di due volte o che sia indispensabile acquistarne di nuovi ogni tre settimane.shopping

Agli occhi della società consumistica in cui viviamo, il Fast Fashion, considerato il fast food della moda, è un sistema al passo con i tempi, veloce ed economico. Un sistema considerato democratico per aver permesso a chiunque di acquistare abbigliamento “alla moda” a pochi euro. Peccato che si tratti di una democrazia basata sulla disuguaglianza, sullo sfruttamento di persone e risorse ambientali indispensabili come l’acqua.

Secondo il Global Slavery Index (2018), il settore dell’industria tessile è il secondo alla guida della schiavitù moderna e il solo lavaggio di una maglietta in poliestere (che rappresenta il 60% della produzione tessile) rilascia circa 700,000 microplastiche che raggiungono i corsi d’acqua, ne danneggiano la biodiversità e potenzialmente anche la salute dell’uomo.

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Microplastiche presenti nei mari

Questo è il prezzo di ogni capo che decidiamo di indossare e per chiunque volesse farlo con consapevolezza le soluzioni ci sono e sono tante seppur non sempre facili o accessibili, ma è un percorso che può essere intrapreso con piccoli semplici gesti come sostenere brand locali che si impegnano per creare un mercato sostenibile, imparare a leggere le etichette di un capo, acquistare handmade (fatti a mano) e second hand (di seconda mano), sensibilizzare la gente alla normalizzazione del riuso dei vestiti, imparare a reinventarli, scambiarli o a ripararli prima di gettarli via.

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I mercatini dell’usato sono un un ottimo posto per comprare indumenti di seconda mano

Si sta creando una rete di consumatori consapevoli sempre più attiva e più accessibile, basta davvero poco per entrare un po’ alla volta nel mondo della Slow Fashion.
Ah, per chi se lo stesse chiedendo, il mio primo passo è stato vedere The True Cost, se non sapete da dove iniziare, iniziate da lì.

Laura Castronovo Albanese è nata a Palermo nel ’99. Oggi vive a Catania dove studia Design e Arti Visive; tra musica, cinema e progetti fatti e da fare. Da 4 anni uno dei suoi più grandi interessi riguarda la slow fashion e l’attivismo ambientale strettamente legato al mondo della moda, portando avanti campagne di sensibilizzazione sui social, nelle scuole e ovunque ci sia voglia di cambiare le cose.

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“The True Cost”, un film documentario del 2015 che affronta il problema del Fast Fashion

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