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11 settembre 2001

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di Redazione

Sono passati vent’anni dall’avvenimento che ha sconvolto il mondo. Un attentato terroristico che ha mutato l’esistenza di miliardi di persone. Una data impressa nella nostra mente e che difficilmente dimenticheremo. L’invito ai nostri lettori è proprio questo: dove eravate e cosa avete provato in quel momento che ha segnato un’epoca? Attendiamo una vostra risposta, coinvolgendovi in un racconto sociale e sentimentale che, speriamo, possa essere interessante per voi che parteciperete e per gli altri lettori.

Alcuni dei nostri storici collaboratori ci hanno già inviato i loro pensieri e li pubblichiamo di seguito. Gli altri e i nostri stessi lettori potranno aggiungere il loro pensiero alla fine della pagina come commento. Ve ne saremo molto grati.

(foto da corriere.it)

Sono passate da poco le 7 del mattino quando mi arriva una telefonata da Alice Springs, al centro del deserto australiano. È Chris, lo station manager di Imparja, il network aborigeno.
Sentirà la mia mancanza, penso. Solo il giorno prima ero tornato a Sydney dall’aver passato un anno ad Alice Springs, una cittadina isolata, spesso violenta. Mi ha sempre dato l’idea di un capolinea: si scende e non si va da nessuna parte.
Erano stati mesi lunghi. Un anno prima, le olimpiadi di Sydney erano appena finite ed ero stanco, mesi e mesi di lavoro in supporto al contingente Rai Sport, così quando Chris mi aveva proposto di passare qualche mese alla rete TV che gestiva per metter su un Tg fatto dagli aborigeni per gli aborigeni, mi era sembrata una buona idea. Era una sfida, perché a tanti aborigeni non piace lavorare con il whitefella, il bianco. Il blackfella è fatto a modo suo, i legami con il clan, la famiglia, sono più importanti del lavoro. E se la famiglia lo richiede, il montatore, il cameraman o anche lo speaker mollano il Tg e scompaiono. A volte scompaiono semza apparente motivo – gone walkabout, andato a fare due passi. Tornano dopo due giorni.
Non era stato facile trovare gli elementi giusti, però qualche mese dopo l’arrivo ad Alice Springs Imparja aveva un Tg presentato da una coppia di aborigeni, con servizi girati da un operatore aborigeno e montati da un montatore aborigeno. Ed era andato avanti, con qualche problema spicciolo ma nulla di grave, tutta una primavera, un’estate, un autunno e un inverno – di quegli inverni del deserto dove la mattina fa meno due gradi e non ti sembra possibile che qualche ora dopo si possa arrivare a 26-28º.
Al ritorno della primavera (stiamo nell’emisfero australe, le stagioni sono invertite) Chris ed io ci siamo trovati d’accordo che il lavoro era fatto, e potevo tornarmene a Sydney.
Quindi quella telefonata alle 7 del mattino era un po’ strana, ci eravamo salutati poche ore prima.
“Hai scelto un bel momento per lasciare il Tg”, dice Chris.
“Perché?”
“Accendi la TV”.
Sono le 7 del mattino del 12 settembre 2001, a Sydney. Le 17 dell’11 settembre a New York. In tutto il mondo non si vede altro, in televisione. È la storia dell’anno, del secolo. E io l’ho persa.
Nota curiosa. Sono le 22:46 del 10 settembre a Sydney quando finisco di scrivere questa nota. Controllo il fuso: a New York sono le 08:46 – esattamente l’ora in cui, tra un giorno – vent’anni fa – il volo American Airlines AA11 da Boston si schiantava sulla Torre Nord.

(Claudio Paroli – collaboratore Rai dall’Australia da 25 anni)

(foto da ilriformista.it)

Ero da poco arrivato in cronaca. In quel momento c’era la collega che si preparava ad andare in Comune a raccattare notizie. E il mio capo nel suo ufficio si organizzava per la riunione delle 16 ai piani alti. Ho acceso la televisione, come si faceva ogni giorno per seguire i Tg. Mi sono messo il mio sigaro in bocca, senza accenderlo naturalmente e ho alzato la cornetta del telefono per fare i “giri di nera”. Dopo aver sentito la centrale della questura, la tremenda notizia in diretta è arrivata come una fucilata. Non volevo crederci. Troppo grande per potere essere vera. Allora ho girato i canali con la speranza addosso che si trattasse di uno spot. Un macabro spot. Invece quegli aerei che entravano nelle Torri Gemelle, trapassandole come se fossero di burro, erano reali. E le sequenze di quelle immagini impressionanti si ripetevano di continuo. Un attentato nel cuore dell’America e del mondo. Al giornale tutto si fermò. Ci concentrammo solo su quel vile attacco che ci veniva spiegato, a mano a mano da chi si era riversato sul posto. E le sirene incessanti dei pompieri. Le Torri che crollavano al suolo in un rallenty che nessuno avrebbe mai immaginato. Le urla di chi era riuscito a scappare. E le terribili sequenze di chi per sfuggire alla morte si era gettato nel vuoto, come se nuotasse nell’aria. La Torre Sud, la seconda ad essere stata colpita, crollò alle 9.59, 56 minuti dopo l’impatto con il volo United Airlines 175, che aveva causato un’esplosione ed un conseguente incendio per via del carburante contenuto nel serbatoio dell’aereo. La Torre Nord crollò alle 10.28, avvolta dalle fiamme per circa 100 minuti.
Il cuore si mise a battere come impazzito. Mi veniva da piangere e mi sentivo impotente, inutile. Eppure, ne avevo viste di tutti i colori in tanti anni di cronaca nera. Ero sbigottito per lo strazio. E le notizie a getto continuo che non avremmo mai voluto ascoltare. Diciannove terroristi islamici si erano imbarcati in quattro aerei ed erano decollati da Boston, da New York e da Washington. Si impossessarono dei comandi, invertirono la rotta e puntarono su quattro obiettivi simbolici: la Casa Bianca, il Pentagono e le Torri Gemelle di Manhattan. Cominciò così la più grande strage di civili per un atto di guerra in territorio americano. Solo il kamikaze diretto alla Casa Bianca mancò il bersaglio, per una ribellione dei passeggeri che fece precipitare l’aereo in un terreno isolato. Gli altri mirarono giusto. I morti furono più di tremila, i feriti più del doppio, i danni materiali e morali incalcolabili. La vittima più giovane, Christine Hanson, una bimba di due anni, stava andando a Disneyland per la prima volta e venne dirottata dai terroristi, si trovava a bordo dello United Airlines Flight 175. La vittima più anziana, Robert Norton, di 82 anni, era a bordo dell’American Airlines Flight 11. I vigili del fuoco di New York, di cui ancora ricordo le immagini: sporchi, disperati e combattivi, ebbero 343 vittime.
Per tutto il giorno e i giorni che seguirono mi sono sentito addosso incredulità, paura, rabbia. Ho guardato mille volte le immagini degli attentati e ancora oggi, a distanza di 20 anni, faccio fatica a credere che un orrore del genere possa essere realmente accaduto.

(Michele Focarete – per diversi anni cronista del Corriere della Sera)

(Foto da corriere.it)

Mi attendevo una giornata piacevole, diversa. Sarebbe stata una breve vacanza. Un amico mi aveva procurato un invito per una serata di Miss Italia, non ricordo se fosse addirittura la serata finale. In una sorta di lieta sospensione che mi ricordava l’ultimo giorno di scuola prima della pausa per Natale e Pasqua, mi disponevo a prendere la strada per Salsomaggiore dove mi attendevano radiose immagini di bellezze in fiore. Ero passato in redazione a Il Giorno e lì mi aveva raggiunto la notizia delle Torri Gemelle. Davanti agli occhi increduli miei e dei colleghi scorrevano immagini indescrivibili. Poco dopo mi mandarono a Malpensa per registrare le reazioni nel grande hub. L’atmosfera era surreale. Con il trascorrere del tempo l’aeroporto andava sempre più militarizzato. Da una parte. Dall’altra, la vita pareva continuare a scorrere con i ritmi della quotidianità. Ancora per poco. Poi vennero annunciati i primi ritardi, le prime soppressioni.
Fu il mio 11 Settembre.

(Gabriele Moroni – come inviato del Giorno ha seguito molti dei più importanti avvenimenti di cronaca degli ultimi trent’anni)

(Foto ANSA- REUTERS/Kelly Price)

Quanto al mio 11 settembre il film della memoria è sempre vivido. Quando verso le 16 sono entrato in redazione la tv era accesa e si vedeva qualcosa che fumava. È stata la mia compagna di banco a ragguagliarmi. Elaborato l’impatto emotivo ho razionalizzato: oggi salta la pagina della Lombardia e magari anche nei prossimi giorni. Al massimo ci sarà da passare qualche cosetta agli Interni. Ricordo indelebile. Forse quella sera ce ne siamo anche andati via prima.

(Andrea Biglia – per tanti anni giornalista del Corriere della Sera)

Quel pomeriggio ero a casa di un collega, che abita vicino al giornale. Aspettavamo altri giornalisti del Corriere della Sera per una riunione sindacale. Quella assemblea formato famiglia non ebbe mai luogo. Davanti alla tv, prima pensammo a una americanata, subito dopo capimmo. Non amo le ricorrenze né le commemorazioni, però è impossibile sfuggire al ricordo e alle impressioni di quell’evento. Anche perché segnò la vita professionale di alcuni di noi presenti a quella non riunione. Poco tempo dopo furono spediti a coprire le aree calde del globo. Io stesso finii prima in Sudan poi in Yemen. Cominciò per me la scoperta della vita reale del mondo islamico, della sua cultura, dei suoi pregiudizi e della sua ostilità soprattutto verso gli USA. E nel 2003 in Afghanistan, a dare il cambio proprio al collega che avrebbe dovuto presiedere la (non) riunione sindacale familiare. Da allora in Afghanistan ci sono stato 10 volte, fino al 2006. Per questo oggi sono addolorato per ciò che sta avvenendo a Kabul e dintorni, anche se non mi stupisco più di tanto. L’occupazione militare, soprattutto quella yankee, non ha saputo conquistare i cuori e le menti. Eppure ha lasciato il piacere della libertà.

(Costantino Muscau – per tanti anni uno degli inviati del Corriere della Sera)

(Foto repubblica.it)

Ricordo nitidamente quel martedì pomeriggio. E come potrebbe essere diversamente? Ero in redazione Motori alla Gazzetta e stavo parlando al telefono con Luca Cadalora, tre volte campione del mondo di motociclismo che aveva una rubrica fissa che commentava la gara della domenica precedente: Luca mi raccontava le sue impressioni, io le scrivevo, poi gli giravo quello che avevo prodotto per l’approvazione, visto che usciva con la sua firma.
Stavamo parlando e nel sottofondo della redazione c’era agitazione con tutte le Tv accese per cercare di capire quelle strane, incredibili immagini che arrivavano in diretta “breaking news” dalla Cnn. Un orecchio a Cadalora, un occhio alla Tv. Quando arrivano le immagini del secondo aereo che si schianta contro la torre: l’orecchio che seguiva il modenese si stacca e viene fuori lo stupore: “un aereo si è schiantato contro un palazzo di New York”, farfuglio… “aspetta un momento che accendo anche io la televisione” replica Luca. Un po’ commentiamo quello che succede davanti ai nostri occhi, un po’ quello che si era visto domenica in pista. Surreale… Finisce la telefonata, mi metto a scrivere, ma impossibile non restare allo stesso tempo attaccati all’attualità, tra televisione, agenzie, commenti, indiscrezioni. La Gazzetta il giorno dopo è uscita normalmente, ma il mondo non era più lo stesso.

(Filippo Falsaperla – per molti anni giornalista alla Gazzetta dello Sport)

(Foto da famigliacristiana.it)

Ignaro di quello che sta per succedere, alle 14.45 mi sto preparando per recarmi al lavoro. Turno pomeridiano con inizio alle 16.00.
Abito a circa venti chilometri e il tragitto in moto per l’hinterland milanese fino a raggiungere il capoluogo è sempre trafficato. La moto è pronta; indosso il casco e via.
Giunto al terzo piano entro all’ufficio helpdesk-sistemi, quello che una volta era chiamato “delle pareti gialle”.
Stranamente nessuno dei colleghi è seduto alle proprie postazioni ma sono tutti raggruppati davanti all’unico televisore, anche in questo caso stranamente acceso di pomeriggio.
Silenzio tombale.
Ancora con il casco in mano, esordisco con un fare un po’ strafottente dicendo: “Ma cosa sta succedendo? E’ scoppiata una guerra?”
Un collega si volta verso di me. Leggo sul suo viso lo sconcerto ma ha la forza di rispondermi: “Peggio”.

(Fabio Maerna – per 35 anni tecnico informatico presso l’ufficio helpdesk-sistemi del Corriere della Sera-Gazzetta dello Sport)

(Foto da repubblica.it)

Nel 20° anniversario del nefasto atto terroristico alle Torri Gemelle di New York, la città di Pozzallo, pur in questo difficoltoso tempo di pandemia, l’11 settembre si unisce in preghiera per non dimenticare la morte del vigile del fuoco pozzallese Joseph Agnello che ha sacrificato la sua giovane vita per soccorrere le innocenti vittime dalla fiammata mortale della violenza.
Un legame carico d’anni e di fraternità unisce la città iblea ai Pozzallesi d’America, che già nel 1919 fondarono a New York la Società dei cittadini di Pozzallo, cui è dedicata una via della metropoli newyorkese.
Per non dimenticare al di là della anagrafica appartenenza che la disseminazione del terrorismo, sollecita, ora più che mai, a vincere la notte della pietà per abbattere l’indifferenza, il peso morto della storia, per dirla con Antonio Gramsci.
E fare memoria può sconfiggere l’indifferenza e spingerci consapevolmente a sfidare i mali, e sono tanti, del nostro tempo.

(Grazia Dormiente – scrittrice ed etnoantropologa)

(Foto da primabergamo.it)

“Ma che succede? Corri! Vieni! Un aereo, contro un grattacielo…. Corri, corri… Guarda, un altro aereo va sparato contro l’altra torre… Accidenti, sono le Torri Gemelle di New York… Ma no, non può essere vero, è un film, adesso lo diranno, roba da arrivo dei marziani… Ma no, dicono che è vero… c’è in giro un altro aereo dirottato… Mamma mia, è un attacco terroristico…. E nessuno riesce a fermarlo… Guarda, le Torri collassano…”.
Ero in casa tranquillo, immerso come sempre, nella lettura delle tragedie quotidiane che nella loro atroce ripetitività ci rendono quasi indifferenti. Questa dell’11 settembre per un po’ sconvolge ogni possibilità di confronto, ci rende sgomenti senza illusione che tutto si possa facilmente sistemare.
Ma no, non è la fine del mondo: è la continuazione del nostro mondo con altri tragici mezzi!

(Vincenzo Viola – docente di lettere in pensione. Attivo in diversi progetti culturali e di volontariato)

(Foto da corriere.it)

Eccome se lo ricordo quel primo pomeriggio dell’11 settembre 2001! Mi sono rimaste nitide nella mente i volti delle persone che avevo accanto, persino gli odori e i colori: fermi lì, come in una sequenza cinematografica che rivedi sempre uguale.
Il corridoio di fronte alla sala operatoria del Civile di Ragusa. La porta che si apre ed esce il medico che, togliendosi la mascherina, con largo sorriso fa: «Tutto ok» e posando la mano sulla spalla di mia figlia «Hai visto Giulia, è stato semplice e facile!»
Ma attorno, di colpo, andava creandosi una strana animazione. Infermieri e medici che andavano da un posto all’altro discutendo animatamente. Alcuni nella saletta accanto erano attorno ad un televisore che dava una edizione straordinaria del Tg.
«Un attentato a New York!»
«No, ce n’è ancora un secondo, Dio mio cosa succede!»
Arrivammo nella stanzetta di degenza, mentre mia figlia lentamente si risvegliava e cercava lo sguardo e la mano rassicurante della mamma.
Squilla il cellulare. Lo apro. Sento tuttora lo scatto dello startac, e lo riconosco (gli altri telefonini, decine, che ho avuto non li ricordo per niente). Dall’altro capo la voce di mio fratello:
«Accendi il televisore, perché il mondo sta venendo giù. Qualcosa di molto grave sta accadendo in America. E non si capisce dove comincia e dove finisce».
Mio fratello allora lavorava al ministero della difesa, a Roma, nel settore comunicazione.
Sentivo le parole ma non focalizzavo, pensavo che un attimo prima ero preso dall’operazione (una semplice appendicite: ma fatelo capire ai genitori che tutto quello che riguarda i figli, loro lo vivono a modo loro!), ora quelle immagini della prima torre che brucia e la seconda trafitta da un aereo che s’incrinava…

(Giuseppe Cultrera – scrittore e studioso di storia locale)

(Foto da corriere.it)

Avevo cinque anni quando le Torri Gemelle vennero divorate da due “missili” colmi di esplosivo e carne, indumenti, idee e sogni. A differenza di molti di voi, non venni travolto da quella colata di fuoco e detriti che piombò sulle strade perfettamente asfaltate di New York. Per molti anni ancora continuai a credere che nel mondo regnasse quella stessa pace che vi era in casa mia. Intanto il globo completava i suoi giri e quella mattina dell’11 settembre sbiadiva dal grande quadro dei dolori dell’occidente e i proclami, gli errori, i soprusi venivano coperti dalle sabbie del tempo, perdendo la dicitura
di cronaca e divenendo Storia. Sono trascorsi venti inverni d’allora, ho venticinque anni, la NATO ha appena concluso un conflitto del quale non aveva compreso la portata, una sconfitta rovinosa, quella che molti della mia generazione potranno chiamare il “nostro Vietnam”. L’occidente tutto si è inumato nella “Tomba degli Imperi”, migliaia di innocenti, desiderosi di pace, senza alcuna volontà di scegliere tra il talebano o l’americano, sono stati sepolti dalle montagne ferite dell’Afganistan. Oggi, udiamo il pianto di questi corpi celati dai veli neri del lutto. La loro costernazione non è diversa da quella che gli accorsi alla strage delle Torri Gemelle dovettero provare, la disperazione di coloro che sono saliti sulle ali dell’ultimo aereo partito da Kabul per poi precipitare nel vuoto non è diversa da coloro che si gettarono senza scampo dai due grattacieli nel 2001. Avevo cinque anni quando le Torri Gemelle vennero distrutte dal fanatismo, quando al dolore l’occidente rispose con altrettanto dolore.

(Vito Castagna – laureato in Storia, specializzando in storia medievale)

(foto da ansa.it)

Era stata una lunga notte di lavoro, quella tra il 10 e l’11 settembre di vent’anni fa. Ospedale, guardia medica interdivisionale, chiamate per urgenze dai vari reparti; negli intervalli tra l’una e l’altra, la voce della coscienza («Avrò agito bene o no?») a tenerti sveglio. Alle otto del mattino “stimbro” e “ritimbro”: avanti fino alle due del pomeriggio, per il turno che competeva alla mia specialità, di riposo obbligatorio non si parlava ancora. Quando a casa mi svegliai dal breve sonno pomeridiano erano più o meno le sedici. Accesi la televisione, un occhio aperto l’altro ancora serrato; audio al minimo. La scena di un aereo che attraversava da parte a parte un grattacielo mi fece solo riflettere sul fatto che a me i film di fantascienza non erano mai piaciuti. Cambio canale: stessa scena. Ancora un canale: lo stesso film? Possibile? Aumentai il volume, spalancai l’altro occhio. La realtà – cruda, violenta, inimmaginabile – aveva superato la fantascienza…

foto banner da wired.it