di Nicola Giulioni
101 anni fa nasceva – e lo scorso anno ci lasciava – Raffaele La Capria, vincitore del Premio Strega con Ferito a morte (1961), un sogno sinestetico in forma di romanzo, dove l’esperienza del protagonista, piuttosto che essere raccontata, viene svelata attraverso strategie insolite e quasi disordinate: visioni nel dormiveglia, andirivieni temporali e flussi di pensieri in cui agguantare i tortuosi percorsi mentali di un giovane uomo alla ricerca della propria identità.

Il protagonista è Massimo de Luca, un ragazzo della Napoli bene degli anni ‘50; abita in una suggestiva villa a strapiombo sul mare e trascorre le giornate in compagnia degli amici, tra battute di pesca e avventure amorose. A differenza degli amici, però, Massimo inizia a sospettare che questa vita li stia condannando all’immobilità, «in un amalgama dal quale è impossibile sottrarsi, sentirsi diverso e distinto».
Durante una gita in barca – uno degli episodi che compongono il flusso di pensieri del romanzo – a Massimo era capitato di contemplare il palazzo di famiglia, sottoposto alla lenta erosione delle onde, e aveva intuito che a Napoli, dove non succede mai niente, la Natura sta agendo indisturbata, verso l’«annullamento totale di uomini e cose». «Possibile che nessun segno preannunci il cambiamento?», si era domandato Massimo nella propria solitudine.

Al suo isolamento contribuisce la sordità da un orecchio: è così che Massimo si ritrova dotato di «una barriera che rende opaco e distante il mondo esterno», comprese le voci degli amici. In una città come Napoli, che «ti ferisce a morte o t’addormenta», a Massimo, ormai ferito a morte, si contrappongono tutti gli altri, assopiti e ignari che «chi resta sarà sopraffatto».
Dopo aver esitato a lungo solo nella speranza di «ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era», Massimo si scopre disposto a vivere «col tempo regolato dall’orologio e dalla busta paga», e pur di sfuggire a un eterno e statico presente si trasferirà a Roma per fare l’impiegato, incompreso ma determinato a salvaguardare il proprio io autentico.
Ferito a morte è tante cose: un viaggio introspettivo, una testimonianza del dopoguerra, un esperimento letterario, ma soprattutto un’auscultazione delle ferite, di come si originano, si affrontano e a volte si rimarginano. Di come la realtà più ambita si possa rivelare il mandante di un omicidio interiore: in questi casi la fuga non è una sconfitta, ma una forma di autodifesa.
