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700 anni dalla morte di Dante

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di Luigi Lombardo

Da un anno è trascorso il 700° anniversario della morte di Dante, il sommo poeta, orgoglio italico, cruccio studentesco. Le iniziative sono state tante. Molti si sono cimentati col poeta fiorentino, attraverso vari modi espressivi: critica letteraria, teatro, cinema. Il fotografo palazzolese Francesco Carracchia lo ha fatto attraverso il suo mezzo espressivo che lo accompagna fin dagli esordi negli anni ’70: la fotografia. Ne è nato un prezioso volume autoriale, pubblicato nel 2021, dalla casa editrice “Giuseppe de Nicola”.

Il testo, accompagnato dalle foto, si pone subito l’interrogativo-dilemma: “Dante uomo del 1300 o… cittadino del terzo Millennio?”. Fiumi di parole sono state scritte sul tema della “contemporaneità” dell’opera d’arte, ammessa da Croce, che ne fa un principio decisivo. In un certo senso anche il nostro bravissimo fotografo concorda col grande critico letterario. Infatti con parole e soprattutto foto, ripercorre il cammino salvifico del poeta dalla disperazione dell’inferno, che nulla consente, alla tenue speranza del Purgatorio, al trionfo dell’assoluto con il Paradiso.

Il fotografo palazzolese Francesco Carracchia

Ma soffermiamoci coi temi affrontati dall’autore nei vari comparti in cui è diviso il libro seguendo la Commedia Divina dall’Inferno al Paradiso. Lo stesso autore indica i temi racchiusi in ciascuna cantica “fotografica”, che attualizza i luoghi danteschi (ci limitiamo al solo Inferno):

«I temi dell’Inferno attuali: Periferie. Il ventre cieco della città. Luoghi della dimenticanza e dell’abbandono. Le architetture che opprimono, i deserti della solitudine, gli spazi che sembrano dilatarsi per dividere e separare. Le periferie diventano un inferno quando vengono intese come ghetti urbani, luoghi della devianza, assenza dei servizi essenziali. Polvere sulle poche aree verdi, gabbie di cemento a soffocare i rari alberi che vi crescono.

Degrado ambientale: la natura soffocata e violentata. Le discariche a cielo aperto, le fabbriche dismesse, le spiagge trasformate in immondezzai o mangiate dalle mareggiate, l’abusivismo edilizio, gli ecomostri che fanno ammalare il paesaggio, la sacralità dell’acqua schiavizzata dalle dighe e dalle centrali elettriche.
Altri temi: marginalità, indifferenza, violenza».

Questi i temi che l’autore affronta a commento della prima cantica. E ne abbiamo subito un esempio quando l’autore-fotografo deve esemplificare le varie tematiche. Lo fa affrontando l’inferno degli inferni moderno: Auschwitz nel capitolo intitolato: «Dante ad Auschwitz: la poetica di Dante nell’opera di Primo Levi». Come mai? L’occasione è la citazione che Levi fa della famosa terzina dantesca:
«Per me si va ne la città dolente
Per me si va ne l’eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente»

Lo fa nel primo capitolo (Il viaggio), descrivendo l’attesa nel campo di raccolta di Fossoli prima di essere deportato nel più terribile ed emblematico dei campi di sterminio. E aggiunge Primo Levi:
«Ma se l’inferno dantesco risponde ad un ordine divino ad un “alto fattore” di giustizia; non così l’inferno dei lager il cui cancello (la “porta di schiavitù”) è sormontato da tre parole di derisione: Arbeit Macht Frei».

“Ultima fermata: L’inferno di Aushwitz” è il titolo della prima fotografia, che può sembrare una fine anziché l’inizio di qualcosa come l’autore vuole dimostrare. Lo fa mettendo a nudo i mali della società contemporanea l’inferno moderno con la sua “febbrilità”, come l’autore chiama lo stato di ansia e motilità frenetica della “vita moderna”, le contraddizioni che si spalancano nel nostro vissuto di uomini: ieri Mostar (una foto straordinaria del cimitero ne descrive il dramma), oggi, aggiungo io, l’Ucraina e i morti di Bucha, vittime innocenti di un “sogno”, di una ideologia che decenni addietro ci portò nell’inferno nazista.

E qui l’autore introduce il dramma degli “ultimi”, gli emarginati, i perdenti e perduti. Qui salta fuori l’impegno civile del Nostro, la sua formazione civile, l’essere stato in gioventù vicino agli ultimi attraverso un forte impegno politico. Ma come Dante, l’autore fotografo intraprende un altro viaggio che lo porta alle “terre di mezzo”, luoghi dell’instabilità, dell’attesa, dell’inquietudine di chi attende l’arrivo del “treno” in una stazione isolata e fredda: siamo al Purgatorio dantesco, non luogo per eccellenza.

In questi “non luoghi” l’autore mette immagini di aeroporti, stazioni, sale d’aspetto, centri commerciali; ma anche i cimiteri, luoghi dell’assenza dolente, «spazi del ricordo, della riconciliazione. Qui il tempo con la sua furia e la sua fretta cessa di travolgere ogni cosa e assume invece la dimensione dell’eterno» (cit. p. 65).

Questi luoghi della instabilità ci introducono al terzo stadio del viaggio “dantesco” dell’autore: l’ubi consistam, il luogo delle certezze, il Paradiso su questa terra dove i temi sono: la bellezza: intesa come valore etico, che si fa estetico. Energia universale; la creatività: arte di strada, musica scienza, comunicazioni; impegno sociale: la forma più alta e più bella di condivisione. Significa regalare il proprio tempo agli altri.

Eh sì, l’autore è pervenuto davvero in Paradiso, che non è il culmine del viaggio dantesco, l’assoluto ineffabile, ma l’approdo e la partenza verso un nuovo viaggio nel mondo della “febbrilità”, il reimmergersi nell’hic et nunc della contemporaneità, che poi è la cifra che contrassegna tutto il volume, che ci lascia, nonostante tutto, speranzosi, umanamente “beati”.