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di Vito Castagna

A volte la colonna sonora di un film può dirci molto sul lungometraggio stesso. È quello che mi è accaduto imbattendomi in quella di Siccità, film diretto da Paolo Virzì e ancora in proiezione presso le sale italiane.

I titoli delle tracce sono già di per sé particolarmente eloquenti – li riporto in ordine di riproduzione all’interno della pellicola: Pioggia Versione Trio, Aurora, La Poetica del Secco, Acido, Canto Fermo, Confessione, Filo del Ragno, Miraggio, Notturno, Passo dopo Passo, Tevere Mitologico, Pioggia.

Paolo Virzì (foto wikipedia)

Francesco Piersanti, compositore e direttore di queste musiche originali, dirà in un’intervista: «… in “Siccità” il suono si inacidisce molto come fosse vittima di una disidratazione fonica, e tutto sembra stridere e alterarsi». L’affermazione di Piersanti e i titoli qui sopra riportati non credo possano lasciare dubbi sul fatto che la siccità, oltre ad essere intesa come una condizione fisica, di privazione di una fonte di vita, è in primo luogo uno stato d’animo.

Difatti, la mancanza di acqua di Virzì non solo soffoca Roma da più di tre anni, ma corrode l’animo dei suoi abitanti, fiaccandone i sensi e generando stati di profondo disagio sociale. Questa capitale, ormai giunta al collasso, alterna l’apatia verso le disgrazie altrui a stati di rabbia feroce, il qualunquismo alla mitomania, l’infelicità ad esplosioni di vitale amore. Un gioco degli eccessi, giustificato da una situazione climatico-sanitaria del tutto eccezionale.

Il Tevere in secca di “Siccità” (foto, lafionda.org)

In questo paesaggio distopico, galleggia un cast d’eccezione: Emanuela Fanelli, Silvio Orlando, Monica Bellucci, Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi, Tommaso Ragno, per citare solo alcuni dei volti più noti del nostro cinema. A loro è affidato il compito di dar vita a questi drammi, attraverso i propri punti di vista, ma, al contempo, tutti saldamente legati reciprocamente. Una metafora, a detta del regista, della vita stessa, nella quale ognuno di noi fa parte di un arcipelago di isole vastissimo, difficile da sezionare e isolare.

Questa condizione, palesatasi durante i momenti più aspri della pandemia, viene riprodotta con cura, lasciando lo spettatore a tratti incredulo di fronte all’inaspettato intreccio narrativo che lega personaggi apparentemente distanti.

Silvio Orlando (foto ehabitat.it)

Eppure, la coralità riprodotta da Virzì sembra mancare di concretezza. La caratterizzazione appare efficace ma è priva di quell’anelito vitale che spinge un buon personaggio ad essere amato dal pubblico. Siccità mette tanta carne al fuoco, rappresentando nuovi “tipi” di italiano medio, ma questo forse lo rende un lavoro tanto ambizioso quanto incompleto.

Nonostante questa carenza, il film raggiunge il suo scopo, quello di spingere verso interrogativi esistenziali: cosa ne sarà del nostro futuro? Come influenzeremo e verremo influenzati dal clima? È troppo tardi per fermare il collasso del nostro sistema? Domande scontate per risposte mai scontate.

Valerio Mastandrea (foto ansa.it)

Siccità non ci dà risposte, se non la sola ed unica possibile, quella della speranza. Intervistato prima della proiezione al Festival del Cinema di Venezia, Virzì affermerà: «Non si può raccontare niente se non si ha speranza nell’umano». E tornando al nostro punto di partenza, è proprio la Pioggia, quella rappresentata musicalmente oltre che visivamente, la speme tanto desiderata. Quell’acqua salvifica che perdona, così pura che è in grado di rilanciare una nuova società.

 

di Luigi Lombardo

“Marzu e aprili acqua a-mmaifiniri”.
Nel proverbio si nasconde l’eterno cruccio del contadino, ieri come oggi: la pioggia, chiamata acqua. Comunque veniva, era benvenuta. Presso la “mastranza”, quando era fitta e continua si ripeteva: “Acqua assuppa-viddanu”. Al che i contadini, colpiti dalla sottile ironia dei mastri, che lavoravano al coperto, rispondevano: “Assuppaviddanu? assuppa cu è n-cianu”, come dire tutti siamo al coperto quando piove; oppure si ironizzava sui “cavalieri”, i borgesi: “Assuppaviddanu: e sponza cavalieri”, che era un augurio a che i borgesi e i massari si inzuppassero d’acqua fino ad assammariari, che vale affogare nell’acqua.

(foto ilsicilia.it)

Per la pioggia il contadino indossava la giucca d’orbace, col cappuccio rialzato, il borghese già disponeva di grandi ombrelli cerati. Comunque ci si adattava, tanto era necessaria la pioggia. Se piove leggero si dice “similia” o anche “pipiriddia” o anche “ciuviddichia”. La stagione più propizia per la pioggia era il periodo autunnale, al tempo della semina, la pioggia favoriva la copertura del seme. Anche ad agosto un bello scroscio d’acqua (detto “rrampata”) era accetto: “acqua r’austu: uogghiu, meli e mustu”.

Ma a giugno era acqua maledetta: “Acqua di giugnu: consuma lumunnu”. Quest’acqua utile all’agricoltura aveva un nome assai significativo, perché si chiamava acqua “ghiogghia”, cioè l’acqua del contadino (gheorghios). La siccità lunga e prolungata era la rovina del contadino. Per questo una serie di riti scongiuratori venivano messi in campo: processioni, preghiere, invocazioni. A Palazzolo le donne, invocando la Madonna della Grazia, intonavano questo canto: “Signuruzzu ciuviti ciuviuti, ca li lauri su mmuorti ri siti, e mmannatini una bona, senza lampi e senza trona. E se bbui nun la mannati siemu poviri e scunsulati, e priati a vostru figghiu ch’è cciù beddu ri lu gigghiu, di lu gigghiu natu all’uortu, vostru figghiu n-cruci è muortu, iacqua ri fonti e iacqua ri cielu, o Maria la grazia vuliemu”.

(foto blog.libero.it)

In segno di gioia i bambini ripetevano la seguente filastrocca: “Ciovi, ciovi, e la iatta fa li provi, e lu surci si marita, cu li causi di sita”, una filastrocca molto diffusa in Sicilia. D’altra parte il gatto che si liscia i baffi o si lava la faccia era segno di futura pioggia: “Quannu a iatta si lava a facci, è ssignu c’a-ccioviti”.

L’acqua è preziosa quanto il sale e un buon consiglio: “Acqua cunsigghi e sali, senza addumannati nun l’a-ddari”. L’acqua associata al vento e al sole favorisce lo sviluppo della pianta: Acqua e-bbientu fa frummientu, acqua e suli fa lauri. Per le fave in fiore l’acqua è preziosa: “Favi n-ciuri, acqua a tutti l’uri”.
Fondamentale è per il contadino conoscere i segni del tempo relativi alla pioggia. Le gru che passano in schiera sono segni di pioggia; i corvi con il loro verso “Qua, qua, qua”, per il contadino annunciano la pioggia futura.

(Foto Pixnio)

I vecchi lunari si occupavano moltissimo della pioggia e dei segni per pronosticarla. Traiamo questo brano da un antico lunario siracusano:
“Acqua pluviale, la quale fa quelle campanelle sopra la terra, oltre al solito denota acqua assai. Acque poche nell’inverno, dinota la primavera esser d’acquosa assai. Calore d’estate intenso e più pungente del solito, significa futura pioggia (suli ca si vagna). Luna col cerchio negro significa pioggia. Nebbia bianca e grossa, che dimostra turrioni, significa acqua e tuoni”.

(foto retemeteoamatori.it)

Capisco che si possa sorridere davanti a queste “fole”; ma pensiamo alla solitudine del contadino (e dell’uomo in generale) davanti ai fenomeni naturali, imprevedibili certo, che la sapienza popolare rendeva comprensibili, attraverso la parola, che interpretava il mondo.

(foto istitutoeuroarabo.it)