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di Giuseppe Cultrera

La definizione di poeta solitario della luce ben si adatta a delineare il profilo artistico ed umano del pittore chiaramontano Giovanni De Vita (1906–1990), cui il comune di Chiaramonte ha dedicato una pinacoteca permanente, dove trovano collocazione le oltre 50 opere donate alla sua città.

Chi ha conosciuto quell’uomo minuto – vestito beige stazzonato, camicia bianca e cravatta, perenne nazionale fra le labbra, dalla voce sommessa ma calda – sa di cosa stiamo parlando. Negli ultimi tempi, anni settanta e ottanta, lo si trovava abitualmente nel suo laboratorio-abitazione di via Castello, una stretta via a gradoni che dal centro urbano conduce alla sommità della collina, dove una volta era il castello dei Chiaramonte, via magicamente ritratta in molti suoi dipinti (il più poetico si intitola Scale…musicali, ed è una soffusa sinfonia di colori cangianti!).

Il maestro Giovanni De VIta (1906-1990)

Qui, gli amici di sempre, i vicini, gli occasionali visitatori, lo trovavano intento a schizzare un progetto, ritoccare un dipinto messo da parte qualche mese prima, completare un luminoso acquerello; c’era tempo sempre per una discussione sulla sua concezione dell’arte, disincantata ed ironica, sulle vicende umane del paesello o del paese Italia, distaccata e pessimistica quasi sempre: C’era sicuramente tempo per un consiglio artistico professionale agli amici artigiani (me lo conferma Sebastiano Catania, abile intagliatore del legno, vicino di bottega).

Se ne andò in silenzio ad inizio estate del 1990, in punta di piedi (ricordo il suo abituale “scusate, tolgo il disturbo” quando aveva impressione che la conversazione si fosse protratta): ce ne accorgemmo subito di quanto fosse invece importante la sua presenza umana ed artistica in questo piccolo paese e di quanto, tutti, ne avessimo fatto poco tesoro.

Chiaramonte Gulfi. La via del centro storico dove viveva e la sua modestissima casa

L’area iblea lo aveva conosciuto ed apprezzato, molti avevano evidenziato la maturità tecnica e la soffusa poesia, ma la valorizzazione e il riconoscimento esterno, quello della cultura ufficiale, non giunse mai. Anche dopo la sua scomparsa la solitudine, torna ad essere presente.

Il percorso artistico ed umano del pittore Giovanni De Vita resta chiuso nel ristretto ambito ibleo e nell’ancor più ristretto ambito del paese di montagna che gli diede i natali e dove trascorse la maggior parte della vita, tranne una breve parentesi di un decennio vissuta in America Latina.

1948. “Api” matita all’acquerello

La formazione artistica, nel primo e secondo decennio del secolo, ancorata al classicismo figurativo, si fossilizza per tutta la vita, adagiandosi sull’impianto tecnico e nozionistico di questa prima fase ed accogliendo solo riverberi delle successive correnti e presenze artistiche, specie nella fase dinamica argentina degli anni cinquanta.

Ciò non toglie che il pittore De Vita riesca ad affinare ed irrobustire la sua personale ricerca artistica, fino a raggiungere un grado di perfezione estetica e formale elevato: specie nelle tempere e nell’acquarello.

1951. (Da sinistra) “L’Inquisitore” e “Criticando”, acquarelli

La prima fase scolastica e di apprendistato artistico avviene a Messina dove, tra l’altro, frequenta lo studio di uno scenografo. Capacità e qualità raggiunti dal giovane pittore sono testimoniate dal prestigioso primo «premio ex aequo» per la realizzazione del “Cartellone” relativo al Duomo da poco ricostruito, dopo il terribile sisma del 1908. Salda formazione e capacità tecnica troviamo, pure, nelle due prime commesse: la grande pala della Pietà per il Santuario di Gulfi nel suo paese, ed una similare per la chiesa di S. Maria in Poggio (Viterbo).

Anni ’50, periodo argentino. “Scamiciati”, pittura ad olio

Rientrato a Chiaramonte alterna lavori di decoro per edifici privati, dipinti su commissione e produzione artistica per mostre e concorsi. Molti lavori di questo periodo, all’interno di edifici privati, sono scomparsi per i continui restauri, ma da uno ancora visibile, nel Palazzo Montesano datato e firmato «Giovanni De Vita, 1937» con rappresentazioni di paesaggi campestri e vedute, possiamo apprezzare la levità del colore e intuire il debito del De Vita al primo Novecento.

Anni ’50, periodo argentino. “La Boca”, acquarello

De Vita che non si sposerà, vive con la sorella Cristina, esperta ricamatrice e conduce una vita modesta. Quando nel 1948 la sorella si trasferisce in Argentina, per lavoro, il pittore la segue. E’ nel fiore degli anni ed ha voglia di lavorare ed esprimere il proprio estro artistico ed il lavoro non manca: decorazione di interni, dipinti per arredo, incisioni e disegni per pubblicazioni.

Ritratto della sorella Cristina, olio

Frequenta la “Scuola del nudo”, partecipa ad estemporanee, collettive, mostre, è presente tutti gli anni, dal 1950 al 1956, ai “Saloni Annuali” di Bueonos Aires, Santa Fè, Rosario, Tendila, Avellaneda, producendo una grande quantità di opere.

Sul finire del 1957 rientra a Chiaramonte, assieme alla sorella Cristina. Si stabilisce nella casa paterna di Via Castello, una serie di stanze a pianterreno con porte-finestre che si affacciano sulla strada; due delle quali diventano il suo laboratorio pittorico. Lavora assiduamente, per privati, associazioni e chiese, decorando interni, restaurando precedenti dipinti. Di questi anni sono i quattro ovali della Società operaia Vittorio Emanuele III, in piazza Duomo, raffiguranti monumenti della città: L’arco normanno dell’Annunziata, il Santuario di Gulfi, la chiesa di S. Vito, il prospetto della chiesa Madre.

1954. “Brillio di metalli” (in alto), olio, e “Composizione con pesci”, acquarello

In molti palazzi nobiliari eseguirà tempere per le volte dei saloni. Gli interventi in alcune chiese (eleganti e freschi gli angeli fra nuvolette nell’abside del Salvatore), ed in varie edicole sacre, per le quali appronta il dipinto devozionale, denotano una ricerca estetica e formale che coniuga canoni tradizionali e moderne acquisizioni finalizzandole ad una calibrata resa figurativa.

E’ questo il momento, a cavallo degli anni ’60, in cui il pittore De Vita, molto richiesto per i lavori decorativi, ha più disponibilità per i dettami della committenza (la saletta del Ristorante Majore, con una serie di trompe-l’oeil, raffinati ma non leziosi, è ancor oggi visibile) e si libera di un solipsismo sempre latente, specie nella produzione pittorica a tempera ed acquerello.

Saletta del Ristorante Majore. Una serie di raffinati trompe-l’oeil

Il soggetto delle opere, sia quelle con una funzione pratica o decorativa, che quelle più squisitamente di libera creazione, trae linfa e spunto dal paesaggio umano e naturale di questo lembo della Sicilia d’oriente; affondano invece in radici colte ed umanistiche le ricercate titolazioni, che egli appone, assieme alla firma ed alla data, quasi ad ogni opera, trascrivendola nel retro o su foglio apposito. Molte sono leziose, altre ostentatamente colte (in lingua latina, in linguaggio arcaico o poetico, metaforiche) alcune sembrano dei divertenti calembour, tutte denotano il personale apporto dell’autore.

Negli ultimi anni si dedicò al solo ed esclusivo lavoro in studio; spesso ritoccando o rielaborando precedenti lavori, riproponendo a volte un soggetto che gli era più congeniale o gradito (ciò avveniva specialmente negli acquerelli) mentre selezionava un corpus di opere che già aveva destinato a rappresentarlo nel futuro. De Vita era modesto, ma aveva una forte autostima, era certo, come leggiamo in una breve autobiografia autografa, «di non essere un genio… ma neppure l’ultimo degli imbecilli!».

1965. “Ego sum” (autoritratto), acquarello

Negli ultimi tempi non vendeva più. Ma anche nel passato era stato restio a vendere a tutti i costi; alcuni dipinti che egli amava particolarmente, o che già aveva individuato per la collezione «a futura memoria» non erano cedibili. Non era interessato molto al denaro: “Quel tanto che basta per vivere” diceva. In questo senso va la sua disponibilità e generosità nei confronti di coloro che volevano accostarsi all’arte ed alla scuola pittorica.

Tenne gratuitamente molti corsi estemporanei, a Chiaramonte, a Ragusa con la benemerita “Promotrice delle Arti”, diretta dal dinamico Angelo Campo, che fu uno dei suoi maggiori estimatori ed il critico che maggiormente se ne occupò; anche nella sua bottega era disponibile a brevi corsi o lezioni per i ragazzi volenterosi e appassionati. Smise, perché confidava di sentirsi stanco: ma aveva già ottant’anni passati e pensava ad una lezione più duratura e più ampia, destinando il meglio della sua produzione a tutti i suoi concittadini.

Chiaramonte Gulfi. Il grande quadro di San Paolo che si trovava in fondo all’omonima via. Oggi nella pinacoteca di Palazzo Montesano

Nel maggio 1990, nei locali della Biblioteca Comunale, nello splendido Salone centrale, fu allestita una antologica (il testo del pieghevole che la presentava fu approntato dal suo più entusiasta estimatore, Angelo Campo). Ricordo il maestro De Vita che nei dieci giorni della mostra fu quasi presente ogni giorno; passeggiava tra i suoi quadri, si intratteneva con i visitatori spiegando, discutendo, sempre con quel lieve sorriso, sfuocato nel fumo della inseparabile nazionale; rispondendo con garbo, a chi gli aveva chiesto il costo di un quadro, che quella era una raccolta del meglio delle sue opere e che non vendeva, anzi il tutto era destinato, ove il Comune di Chiaramonte fosse disponibile a darne sistemazione stabile, in dono alla sua città.

1979. “Sereno”, acquarello

Quei dipinti sono oggi la Pinacoteca De Vita: i parenti esaudendo il desiderio del maestro li hanno donati alla città di Chiaramonte, che ha destinato ad esposizione permanente alcune sale del palazzo Montesano. Sono 51 opere che raccolgono la prima produzione, il periodo argentino e la maturità. Nelle tempere, gli oli e specialmente negli acquerelli, si decanta la poetica di questo uomo del sud espressa attraverso la luce dei paesaggi iblei. Un uomo che ha scelto un piccolo paese posto in cima ad una collina come approdo primo ed ultimo, rinunciando persino ad una ipotetica ascesa nel mondo artistico (ma questa, lo sanno bene tutti i siciliani, è stata ed è la loro perenne dannazione).

1986. Il maestro De Vita insieme a Leonardo Sciascia