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di Giuseppe Cultrera

All’armi, all’armi: la campana sona
li Turchi son sbarcati alla marina.
Chi ci ha le scarpe rotte le risuoli
che noi dobbiamo far lungo cammino.

Mamma li Turchi!
Pirati barbareschi, stampa popolare

Questo canto popolare è presente, con lievi varianti, un po’ in tutto l’estremo meridione ed è testimonianza di un periodo storico buio e insicuro, quando pirati e corsari erano padroni del Mediterraneo e, spesso, con insidiose incursioni, penetravano il territorio costiero, depredando, distruggendo e facendo prigionieri gli abitanti. La campana che annunciava il pericolo stava sulle torri di avvistamento dislocate lungo la fascia costiera; i “turchi” erano pirati per lo più barbareschi. Ma troviamo presenti egualmente avventurieri europei “cristiani” spesso “coperti” dai regnanti (di Francia specialmente) in perenne lotta tra loro, con i quali spartivano parte dei proventi.

Mamma li Turchi!
Due Ex Voto con scene di attacchi a imbarcazioni da parte di pirati

Pertanto per i poveri diavoli che, come le proverbiali pezze, erano gli unici a “volare”, non restava altro che darsi a precipitosa fuga: sempre all’erta e col rischio che raccolto e casa andassero persi. Ma la paura più grande era quella di esser presi prigionieri e ridotti in schiavitù. E solo i più fortunati riuscivano, dopo peripezie e sofferenze, a ritornare a casa versando un esoso riscatto. Operazione non facile. Il prigioniero Nocentio da Messina, nella missiva del 4 maggio 1592, suggerisce alla madre e al fratello uno scambio «Si potèssiti comprare un turco e mandarlo di qua». Perché gli schiavi non erano solo cristiani. Figurarsi poi i corsari! Gli unici a far affari, in questo frenetico commercio di carne umana, erano i banchieri e gli strozzini.

Mamma li Turchi!
Marina di Ragusa, Torre Cabrera (Gaddimeli) e Pozzallo, Torre Cabrera (foto di Giulio Lettica)

Una passeggiata nel litorale ibleo – il mare azzurro davanti e la sinuosa battigia alle spalle – ci può restituire memorie e  voci di quei tempi lontani. Le torri a difesa della costa sono ancora tutte e cinque esistenti: alcune integre, altre con presente solo il primo livello e qualche pertinenza. In sequenza da est ad ovest incontriamo la torre Cabrera di Pozzallo, la torre Cabrera di Marina, Torre Scalambri (Punta Secca), Torre di Mezzo e Torre Vigliena (Punta Braccetto).

Mamma li Turchi!
Punta Braccetto, Torre Vigliena

La maggior parte delle torri fu costruita nel XVI secolo, ideate e opportunamente posizionate dall’architetto fiorentino Camillo Camilliani; mentre del secolo precedente è quella di Pozzallo, eretta dal conte di Modica, Giovanni Cabrera, non soltanto come torre di avvistamento e difesa dagli attacchi saraceni, ma anche come abitazione, postazione militare con una guarnigione, prigione e specialmente caricatore per il commercio dei grani e dei cereali in genere.

Punta Secca, Torre Scalambri. Marina di Ragusa, Torre Cabrera in una vecchia cartolina

Sul contrafforte, e specialmente nella terrazza, erano posizionati cannoni e colubrine, pronti a far fuoco sui vascelli corsari che si avvicinavano al loro specchio d’acqua, mentre i miliziani o la guarnigione dislocata nella fortezza si preparavano a fronteggiare e a respingere gli assalitori.

Tra le centinaia di incursioni – sventate, subite o contrastate – abbiamo memoria di un audace attacco di pirati barbareschi alla spiaggia di Mazzarelli, quando fu persino preso prigioniero il guardiano della torre (1606). E fino al secolo XVIII quest’incubo continuava ad attanagliare il litorale ibleo: ad esempio nella primavera del 1750 otto sciabecchi provenienti da Biserta (Tunisia) presero terra nei pressi della Torre di mezzo.

Pirati
Torre di Mezzo (foto di Giulio Lettica)

Ma anche l’entroterra non dormiva sonni tranquilli. Le antiche cronache di Chiaramonte – ben lontano dal mare e arroccato sui contrafforti degli iblei – ci testimoniano incursioni nelle estreme propaggini del territorio con pirati che rubavano, uccidevano e, cosa più temuta, prelevavano uomini e donne abili, per rivenderli come schiavi nei loro paesi. E ben poco potevano, data la repentinità delle incursioni, i cavalieri Gerosolomitani che risiedevano nel convento attiguo alla Chiesa di S. Giovanni e che dall’alto controllavano e spesso pattugliavano il territorio. L’unica speranza anche per questi spauriti pastori e contadini era quella di riuscire a nascondersi o fuggire al suono della campana che annunciava l’arrivo dei pirati.

Allarmi allarmi ca la campana sona,
li turchi sunu junti a la marina,
ccu avi li scarpi rutti si la sola,
ca iu mi la sulai sta matina!

Recita con disincantata ironia e arguti giochi lessicali (si la sola / mi la sulai), la versione locale del noto canto popolare. Mentre il grido di terrore “Mamma li Turchi!” divenne il refrain di paure inconsulte e inaspettate, nei secoli successivi. Fino ad oggi. Ma i “turchi” odierni non vengono soltanto dal mare e dalla costa africana.

Pirati
La torre di Pozzallo e il caricatore in una rara stampa settecentesca (Biblioteca Nacional de España)

di Sebastiano D’Angelo

Nell’ambito della sezione “Aziende“, una delle più belle pagine della storia del Premio Ragusani nel mondo è stata quella di Giuseppe Libretti, Amministratore Delegato della Libretti, un’azienda iblea fortemente innovativa, lanciata in una fase di costante sviluppo che le ha consentito di proiettarsi sui mercati europei a forte indice di consumismo e benessere.

Giuseppe Libretti

La presenza sul palco di Giuseppe Libretti è stata seguita in diretta social da centinaia di dipendenti, segno del rapporto di piena identità che lega i lavoratori alla proprietà, cosa non sempre scontata nel contesto delle imprese locali e nazionali. Mentre una numerosa rappresentanza di maestranze acclamava in Piazza Libertà, con un senso di forte orgoglio aziendale, il conferimento dell’onorificenza all’Amministratore Delegato, avvenuto il 3 agosto 2019.

3 Agosto 2019. Giuseppe Libretti (secondo da destra) in un momento del premio Ragusani nel Mondo

L’Azienda F.lli Libretti nasce nel 1950, in una cultura contadina che ha saputo nel tempo rinnovarsi rapidamente, mantenendo vivo un modo autentico di fare agricoltura. La continua evoluzione commerciale ha sempre arricchito l’azienda di nuove motivazioni e di nuove prospettive, maturando la consapevolezza, negli anni, dell’acquisizione di un know-how unico in grado di confrontarsi da protagonisti sul mercato globale.

La F.lli Libretti nasce nel 1950 da un’idea imprenditoriale di Angelo ed Emanuele Libretti, idea che trova le proprie radici nella tradizione contadina di famiglia.

Merito della lungimiranza di Giuseppe Libretti, e del suo management, che hanno saputo integrare i moderni metodi di coltivazione con il totale rispetto della natura e della tradizione. Tutto il processo produttivo è costantemente seguito da personale altamente specializzato ed è assiduo l’investimento in ricerca, tecnologia ed innovazione.

I risultati conseguiti dall’Azienda, misurabili nell’eccellenza delle sue produzioni, rappresentano la prova tangibile del controllo della filiera produttiva e dell’inesauribile lavoro di ricerca, garantendo sempre elevati standard qualitativi, salubrità del prodotto e attenzione per l’ambiente. Inoltre l’azienda è sempre risultata in linea con le richieste dei più importanti players della GDO nazionale ed estera, con progetti di filiera controllata “a residuo zero” e prodotti bio.

(foto Be Studio)

Negli ultimi anni il Management del Gruppo ha optato per uno “spin-off ” che ha dato origine ad un nuovo marchio: la “Bottega di Sicilia”, un brand che ha subito riscosso grande successo per la bontà e la qualità delle sue produzioni.

foto banner e social Be Studio

di Gabriele Scrofani

Tra i tanti aspetti della nostra vita, che vengono e verranno condizionati dal cambiamento climatico che stiamo vivendo, uno dei più importanti e urgenti è quello che riguarda l’alimentazione legata all’agricoltura e all’allevamento. Aspetti che ovviamente riguardano l’intera popolazione mondiale, sebbene con urgenze differenti. Sono numerosi i report e gli studi che sono stati o verranno pubblicati da parte di importanti istituzioni come la FAO e l’EFSA.

Il problema è di importanza planetaria ma nel nostro territorio, a forte vocazione agricola, ci riguarda ancor più da vicino anche per le implicazioni che riguardano la zootecnia da cui otteniamo latte e derivati, carne, miele e tanti altri prodotti. Le condizioni climatiche peculiari che già ci caratterizzano sono in grado di condizionare le scelte delle colture e ancor di più ci condizioneranno nel prossimo futuro per colpa di un clima sempre più arido. Un processo che ci porterà ad una tale progressiva desertificazione da compromettere la sussistenza di alcune colture che richiedono maggiori quantitativi di acqua o specifici terreni ricchi di nutrienti.

Il rischio desertificazione in Sicilia (fonte e immagine: asvis.it)

A questo proposito il 17 giugno scorso si è tenuta la giornata mondiale contro la desertificazione e la siccità. Si è parlato della riconversione di terreni degradati (punto 15 dei 17 goals proposti dall’ONU nell’Agenda 2030) e i dati esposti sembrano dimostrare che almeno il 10% del territorio italiano è a serio rischio siccità. La Sicilia addirittura sembra la regione che presenta il rischio maggiore con un 42,9% di superficie totale sensibile alla desertificazione. Una percentuale altissima. Non è un caso che negli ultimi anni a soffrire di più sono state e sono le colture degli agrumi. Fatto che sta già spingendo gli agricoltori a puntare su coltivazioni alternative di mango e avocado. Nonostante ciò, il consumo di suolo, ovvero il passaggio da suolo non artificiale a suolo artificiale è in leggero aumento in Sicilia  (fonte ISPRA e ARPA), con una punta di incremento percentuale (15,4%) proprio nella provincia di Ragusa. Mentre per quel che riguarda i singoli comuni della provincia la città di Vittoria primeggia, seconda nell’isola soltanto a Palermo. Nello specifico, l’incremento di suolo consumato a Vittoria è da imputare alla realizzazione di nuove serre agricole.

Una distesa di serre nella pianura vittoriese (foto da ragusaoggi.it)

Al di là del consumo del suolo è comunque necessario valutare le produzioni che ci possono aiutare in questa transizione: nella fattispecie l’agricoltura a basso impatto ambientale. Ovvero l’agricoltura biologica, che prevede l’utilizzo di sostanze e processi naturali che riducono l’uso di prodotti di sintesi, e l’agricoltura conservativa che riduce la lavorazione del suolo e il suo rimescolamento. Si impedisce così al metano (un importante gas clima-alterante) e al carbonio di essere rimessi facilmente in atmosfera.

Le coltivazioni maggiormente suggerite sembrano le sempreverdi tipiche della macchia mediterranea quali olivo e carrubo: in particolare l’ulivo da recenti studi condotti proprio in Sicilia risulta più efficiente nel bilancio tra CO2 emessa e assorbita. La caratteristica che rende le essenze sempreverdi meno impattanti è legata alla loro attività fotosintetica che continua anche in inverno, quando altre essenze sono in stand-by.

Carrubo e ulivo: esempi di colture sostenibili nel ragusano

Anche l’allevamento di animali (molto presente nella zona collinare iblea) presenta gravi problemi di sostenibilità ambientale. In Europa (come nel Nord America) si è calcolato che oltre la metà dei cereali prodotti sono consumati dagli animali allevati, determinando alla base uno svantaggioso indice di conversione alimentare: per ogni chilogrammo di proteine animali prodotte, occorrono circa 6 chilogrammi di proteine vegetali e con un conseguente consumo iperbolico di risorse idriche necessarie alla coltivazione del foraggio per il sostentamento alimentare degli animali. Su scala globale vengono impiegati oltre 2300 miliardi di metri cubi d’acqua l’anno. Anche l’allevamento vero e proprio richiede l’utilizzo di ingenti risorse idriche: un bovino da latte, durante la stagione estiva, può consumare fino a 200 litri di acqua al giorno, un maiale oltre 20 litri e una pecora circa 10 litri. Considerando anche l’acqua che viene usata per la pulizia di strutture e animali, per i sistemi di raffreddamento e lo smaltimento dei rifiuti, ci sarebbe molto da riflettere sulla necessità di un cambiamento radicale sia sul modello produttivo che sui consumi alimentari.

Un allevamento intensivo di bovini (foto da essereanimali.org)

In ultimo ragionando di azioni messe in atto per ridurre l’impatto ambientale una grossa mano si attende dalla strategia “Farm to fork”, dove un’agricoltura di precisione mira ad aumentare la produzione non soltanto riducendo la superficie di coltivazione, applicando il metodo conservativo e razionalizzando i sistemi di irrigazione, ma agendo sulla genetica delle essenze foraggere per ricercare dei genotipi più resilienti alle temperature sempre più alte. Quest’ultima metodica però è apertamente in contrasto con i dettami dell’agricoltura biologica che prevede di non utilizzare prodotti OGM. Mi sembra però inevitabile che con il peggiorare della situazione climatica questa resistenza dovrà venir meno per ottenere coltivazioni capaci di resistere alle mutate condizioni ambientali.

(Immagine da naturachevale.it)

Vorrei anche ricordare quanto sia importante il comportamento di tutti noi nelle scelte quotidiane  di acquisto di prodotti provenienti da un’agricoltura sostenibile e l’urgenza di pratiche più ecocompatibili nella nostra vita per rendere questa transizione possibile.

(Fonte e immagine da: Repubblica.it)

foto banner da qds.it