di Luigi Lombardo
La notte del 31 dicembre era (ed in parte è ancora) usanza buttare dalle finestre suppellettili e vecchie stoviglie, che simboleggiano il vecchio anno e quindi metaforicamente il male passato. L’uso col tempo è degenerato al punto che con ordinanze sindacali si è proibito qualsiasi lancio dai balconi.
A Siracusa i marinai si riunivano all’imbrunire attorno al grande fuoco dello zuccu (grosso ceppo di rovere detto anche ccippu) e passavano la sera fra abbondanti bevute, canti e baldoria. Secondo un’antichissima tradizione a chi perde al gioco di carte in questa notte si suole ripetere in tono scherzoso (ma non troppo): «Cu iè-ddispiratu: o-ccippu» (Chi è disperato vada al ceppo). Il fuoco si accende in casa sul braciere avendo cura di usare grossi legni di arancio o limone, che durino tutta la notte e su cui si usa buttare incenso, zucchero o sale!

Il fuoco acceso in questa notte particolare di trapasso annuale, di ricominciamento d’un ciclo ha valore magico-religioso, esorcistico, propiziatorio o anche solo purificatorio. L’indomani giorno di capodanno si ha cura che la prima persona che si incontri, uscendo di casa, sia quella giusta: se è una donna sposata l’annata sarà favorevole e ubertosa, se nubile sarà piena di guai.
Fin dalla prima mattinata i bambini uscivano a frotte bussando di casa in casa di parenti o amici per chiedere la strina; ad Avola, entrati in casa, ripetevano questa filastrocca imperativa:
«Bon Capudannu e bon fini di misi: / i mustazzoli unni su’-mmisi?», che ad Avola così si recitava:
«Bon Capudannu e bon fini di misi / rapi la borsa e dammi i turnisi», e si facevano gli auguri, ricevendo ciascuno doni come fichi secchi, noci, nocciole, uva passa (i passuliddi), una cucciareddha (pane natalizio degli iblei a forma di vulva). Lo stesso rituale si ripeteva a Natale e per la Befana.

In questo giorno i bambini trovavano in casa una calza ripiena di dolci e soprattutto di nespole a gghiappuna, una qualità di nespole che si raccoglie a fine estate e si lascia maturare per tutto l’inverno. Tutti questi doni prendono il nome di strini, che è l’italiano strenna.
Un diffusissimo (un tempo) canto sui mesi dell’anno recita a proposito del mese di gennaio:
«Innaru porta la festa lu primu
comu si leggi ogni annu a calinnariu;
lu primu c’agghiorna è la strina,
e ddoppu veni san Macariu
e li sei è la Pasqua Pifania.
A li quinnici lu beatu Mauru,
a diciassetti S. Antoniu abati
e vinticincu cumpari S. Paulu».

Gennaio è il mese dei giovani, che resistono bene ai freddi dell’inverno, tanto che un antichissimo detto recita:
«Bon Capudannu e bon fini misi
i vecchi su-mmalati e i picciotti tisi».
Speriamo, invece, che l’anno nuovo porti salute a tutti e un po’ di serenità.