Come una antica divinità essa si invocava con speciali tiritere in siciliano, recitate dai bambini a mo’ di gioco, che originano, mutatis mutandis, da antichi culti lunari praticati ad esempio dalle sacerdotesse di Ecate o dalle Druidesse:
«Luna lunedda fammi na cudduredda fammilla bedda ranni la porti a san Giuvanni…»
Selene, divinità greca e personificazione della Luna (immagine da laltragenesi.it)
Questi frammenti di un folklore, ormai quasi del tutto dismesso, testimoniano che la luna e tutti i fenomeni naturali vengono visti dal pensiero mitologico come segni, simboli di realtà misteriose dove «s’annega il pensier mio», il pensiero di tutti.
In fondo, tuttavia, ad un’analisi più profonda si rileva come queste antichissime tradizioni siano in fondo delle forme che sostanziano lo sbigottimento davanti alla finis temporum, al tempo inesorabile bestia divoratrice, come il Kronos della mitologia che ingoiava il figlio: un’eroica resistenza contro il “drago” del tempo che declina, contro cui si leva la spada (o la lancia) dell’indomito San Giorgio.
Kronos mentre divora il figlio (dipinto di Francisco de Goya) (immagine di Soerfm da Wikipedia)
«Vincere il drago», come l’antropologo Antonino Buttitta titola l’ultima sua opera postuma, è il tema fondante di ogni fatto culturale: trasformare il divenire rettilineo in una visione ciclica per cui tutto torna come la luna piena che fa cantare gli innamorati.
Sì perché la luna che vediamo nelle tradizioni popolari non è tanto un pianeta satellite, quanto un simbolo che l’immaginario collettivo ha elaborato. Tale rielaborazione si fonda certo su fenomeni naturali: l’influenza sulle maree, le fasi lunari, la periodicità delle lunazioni e la cadenza mensile delle quattro fasi. A dispetto degli innamorati della «luna rossa me parl’e-tè», essa è simbolo ambiguo un po’ positivo un po’ negativo.
L’antropologo Antonino Buttitta (1933-2017)
Lo abbiamo visto in questo rapido excursus delle tradizioni popolari iblee quali influssi malefici ha la luna sulle creature: l’immaginario costruisce tramite il simbolo lunare la paura dell’essere vivente davanti al divenire, allo scorrere inesorabile del tempo. Luogo della morte, segno del tempo, è normale vedere attribuire alla luna, e alla luna nera in particolare, una potenza malefica.
Nel Vangelo secondo Matteo si utilizza il verbo séléniazesthai (essere lunatico), quando si fa riferimento a possesso demoniaco. La luna è legata al femminile più negativo, alla paura del maschio per i mestrui femminili, al misoginismo dell’immaginario di fronte all’immagine femminile della “grande dea”, sia essa Artemide, Ishtar, Iside, Cibele.
Iside, moglie di Osiride, dio dei morti, e madre del dio falco Horo, nell’antico Egitto era considerata la maggiore divinità femminile ed una grande maga. Dea della Luna e della Terra
Come è noto, nell’indoeuropeo luna, nella sua versione più antica (prima di divenire il latino losna parola etrusca), si relaziona alla radice «me-» di mensis, così come mene in greco, il sanscrito mas, l’avestico mah, il gotico menà, da cui il nostro misurare. Nel folklore europeo essa, sparendo per tre notti, dà luogo alla credenza della luna nera è inghiottita dal mostro. Il mostro, alla stregua del Kronos inghiottitore, fa sì che la luna sia «la grande epifania drammatica del tempo», del tempo irreversibile.
Tuttavia l’immaginario, partendo dalla parola misurare, trasforma le epifanie lunari, regolari e cadenzate in calendario, in ripetizione temporale, non più la finis temporum, ma l’instaurarsi del ciclo annuale di stampo lunare, formato da mesi di 29 giorni, per un totale di 354 giorni, che era in un lontano tempo la durata dell’anno lunare prima della precessione degli equinozi e dello spostamento dell’asse terrestre.
Il dramma lunare con i suoi fantasmi femminei (streghe, sirene, parche, Circe ecc.) volge al rassicurante ciclo lunare che si ripete introducendo nella cultura umana il complesso mitico “dell’eterno ritorno” (M. Eliade). Il volto oscuro della luna volge al chiarore lunare degli innamorati della «luna rossa me parl’e té».
“Vincere il drago” raccoglie saggi scritti da Antonino Buttitta in occasioni e tempi diversi, accomunati da un’idea che lo stesso autore così significativamente riassume: «l’essere degli uomini, il loro sentire e pensare, fare e comunicare sono una realtà unica e indissociabile».
In queste pagine, pubblicate postume e pur ordinate e preparate in bozze per la stampa pochi mesi prima della morte, Buttitta sembra aver voluto richiamare e ricapitolare le tappe e gli snodi fondamentali del suo percorso scientifico, in un consuntivo che è un critico ripensamento e una convinta riaffermazione dei principali paradigmi teorici delle sue riflessioni.
A partire dai rapporti natura-cultura, la loro unità indissociabile e il loro carattere sociale; i confini tra umanità e animalità nella rilettura di Aristotele; l’analisi dei nessi tra modi di produzione e fatti di cultura; il potere dei miti e delle rappresentazioni della realtà che – scrive – «sono la realtà. Reale è quanto noi pensiamo del mondo: e questo è il nostro mondo con il suo portato di maggiore o minore verità». E infine – ma in cima alla sua ricerca umana e scientifica – «quanto l’immaginario ha a che fare con il quotidiano; la memoria con l’eternità».
Antonino Buttitta (1933 – 2017)
Nel titolo ripreso da una silloge di Onofri, la cui poesia esprime il tentativo di oltrepassare l’apparenza e la caducità del mondo per attingere all’eterno e riuscire a percepire l’invisibile, si allude a un concetto che più volte ricorre nelle pagine di Buttitta quando fa riferimento alla storia e alla memoria, temi centrali del volume.
Sulla memoria, luogo geometrico e insistito crocevia dei suoi ragionamenti, Antonino Buttitta ha discusso e scritto per buona parte della sua vita. Presentificazione del passato e argine alla morte, la memoria tracima la temporalità e incarna la sfida dell’essere contro il divenire del tempo. Ad Agostino e Borges l’antropologo più volte ritorna per trovare e ribadire le ragioni di questo convincimento: nella dimensione laica della vita, l’unica immortalità possibile è affidata alla memoria che salva le parole e le azioni degli uomini dal consumo finale ed eterno.
(Da sx) Sant’Agostino nello studio (Botticelli 1480) e lo scrittore Jorge Luis Borges (1899-1986)
Il tempo, nelle sue diverse declinazioni – vissuto e strutturato, circolare e lineare, mitico e storico, continuum e discretum – è l’agente empirico e il referente concettuale che attraversa e scorre lungo tutte le pagine di questo volume, in un rapporto di intensa e intima consustanzialità con la memoria.
Muovendosi tra marxismo e strutturalismo, linguistica e semiotica, storicismo e presentismo l’autore ripercorre i tornanti dei complessi e annosi dibattiti che hanno occupato la comunità scientifica e fa chiarezza su teorie e metodologie, modelli e ideologie, false innovazioni e vecchie insipienze accademiche. Da qui affiora sotto traccia una possibile storia dell’antropologia, nella evoluzione dei suoi paradigmi e delle questioni aperte dalla tradizione di studi, e soprattutto nelle feconde relazioni con le altre scienze.
Per formazione e temperamento Buttitta ha sempre diffidato delle mode intellettuali e degli orientamenti ideologici affetti da onnipotenza euristica, ritenendo i confini disciplinari fissati dallo statuto dell’antropologia – di per sé debole e incerto – semplici convenzioni formali, rappresentazioni arbitrarie, essi stessi costruzioni culturali da decostruire e ripensare in dialogo e in connessione con le altre scienze, soprattutto con quelle che studiano le procedure del pensiero umano, con la fisica di Einstein e di Heisenberg, con la semiotica di Greimas e di Lotman, con la logica e con la filosofia da Aristotele a Popper.
(da sx in alto in senso orario) Il semiologo Greimas, il filosofo Karl Popper e il fisico Einstein
A guardar bene, tutti i fatti culturali sono riconducibili a strutture e dinamiche linguistiche, dal momento che «aspetto fondativo e sostantivo della nostra realtà» è il linguaggio. Se lo spazio abitato dagli uomini è fatto di segni, si comprende perché la lingua contribuisce a costruire la realtà essendo «l’anello della catena natura-cultura e forse ragion d’essere della stessa».
Buttitta ama richiamare le lezioni di Agostino, di Vico, di Schopenhauer, di Jaspers – classici del pensiero occidentale, per molti aspetti precursori di fondamentali intuizioni scientifiche – per spiegare i percorsi e gli orditi di ciò che chiama «umanamento dell’uomo», il flusso che dal continuum della realtà ontologica conduce al discretum della realtà gnoseologica, come dire dal naturale al simbolico, momenti di un unico processo senza soluzione di continuità e solo operativamente dissociabile.
(da sx in alto in senso orario) lo storico, filosofo e giurista Vico, il filosofo Schopenhauer e lo psichiatra-filosofo Jaspers
Nel suo essere antropologo e nel suo fare antropologia, Buttitta si misura soprattutto con la letteratura, una vocazione intellettuale ereditata dal padre, un patrimonio culturale maturato per educazione e sensibilità umanistica ma anche per passioni e suggestioni semiotiche. «La letteratura è la migliore delle antropologie» non esita ad affermare, e da Omero a Borges ha esercitato la sua attenzione per le rappresentazioni che della realtà e degli uomini, del senso ultimo dell’esserci, hanno nel tempo dato gli scrittori. In forza della parola che narra, l’immaginario non è affatto l’opposto del reale ma rende il reale verosimile e intelligibile proprio perché narrabile.
Attento ai rapporti tra letteratura e antropologia –forme ed espressioni diverse di un unico discorso sull’uomo – Buttitta in queste pagine dialoga con Borges e con Marquez, con la poesia del padre Ignazio e con le storie di Nuto Revelli, nella consapevolezza che gli scrittori sanno indagare e interpretare la condizione materiale e culturale degli uomini sovente meglio degli antropologi, restituendo nel racconto di una singola vita la storia di più vite, «tutte quelle di coloro il cui percorso si è incrociato con quello del narratore». Troppo spesso, infatti, gli antropologi descrivendo gli uomini nella frigidità di certe etnografie rischiano di perdere di vista l’uomo, a differenza degli scrittori che rappresentando l’uomo trovano epifanicamente gli uomini, non hommes par la figure, pallidi soggetti grammaticali, ma persone in carne e ossa.
Il poeta di Bagheria Ignazio Buttitta (padre di Antonino) insieme al pittore palermitano Renato Guttuso
Nel suo argomentare su storia e memoria, il volume non poteva non includere una lunga e densa riflessione sulla Sicilia e sulla sua complessa vicenda culturale, sui siciliani e sulle loro ipertrofiche identità, sui miti e le utopie, sulle stratificazioni etniche dell’Isola, crocevia di attraversamenti umani e di contraddizioni intellettuali e sentimentali.
Pagine che ripercorrono e riassumono gli esiti più significativi degli studi attenti e pionieristici condotti dall’autore sull’arte popolare e sulla cultura figurativa siciliana, dalle pitture su vetro e su carro alle tavolette votive e ai cartelloni dell’opera dei pupi: una rassegna analitica che comprende anche le preziose ricognizioni sulle feste e sugli aspetti rituali e simbolici.
Lontanissimo da ogni asfittica retorica e da certo sicilianismo vissuto come vittimismo, da studioso convintamente europeo e partecipe della civiltà intellettuale espressa dagli sviluppi del pensiero scientifico, Buttitta non esita ad affermare che nascere in Sicilia è comunque un privilegio e con Borgese ribadisce che la Sicilia è «un’isola non abbastanza isola, meno che nazione, più che regione».
Lo scrittore, poeta e giornalista polizzano Giuseppe Antonio Borgese (1882 – 1952)
Nel tempo in cui trionfano globalizzazione e delocalizzazione l’antropologia ha il compito di rendere visibili e riconoscibili i rapporti tra gli uomini e i luoghi. Ma a fronte della frammentazione e della separatezza delle diversità culturali oggi strumentalmente enfatizzate e trasformate in alterità reificate e irriducibili, ha anche la responsabilità di ricondurre il continuum di quelle differenze all’unicum della vita umana iscritta nell’universalità della natura, la cui unicità ne sostiene e giustifica le infinite e infinitesimali varianti. In questa impresa il dialogo con la letteratura può senza dubbio contribuire ad aprire nuove brecce nei saperi antropologici e originali frontiere nella complessa conoscenza dell’uomo e dell’umano.
Antonino Buttitta negli ultimi anni di vita
Le questioni che Antonino Buttitta affronta in questi scritti si collocano nel contesto di dibattiti mai del tutto conclusi, rimanendo l’uomo in tutte le sue dimensioni culturali al centro di ogni antropologia, l’alfa e l’omega di ogni discorso, orizzonte e misura di storia e memoria. Se è vero che mutano i confini e le forme dell’umanità, anche in ragione delle più avanzate scoperte scientifiche e dello straordinario sviluppo delle nuove tecnologie, resta tuttavia davanti agli uomini, tutti gli uomini, il problema di “vincere il drago”, di affermare la vita oltre la morte, di oltrepassare il divenire per attingere alla permanenza dell’essere, di trascendere l’apparire delle cose per cogliere il senso profondo dell’invisibile.
Perché – scrive Buttitta – una cultura è fatta più di cose invisibili che visibili. «Le cose invisibili della cultura sono più durature di quelle visibili, destinate al tramonto dal trascorrere della storia. Ma dei passi degli uomini restano le orme nelle parole, nei monumenti».
Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi della letteratura e dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. Attualmente è Presidente dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo e dirige la rivista ‘Dialoghi Mediterranei’.
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