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Antonino Uccello

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di Giuseppe Cultrera

Giuseppe Brancato che mi guidava per le cave di Pantalica, narrando di arnie colme di miele – quello ibleo, appunto – e di civiltà antiche come quelle pietre, era lo stesso affabulatore che aveva conosciuto Vincenzo Consolo, facendone uno dei personaggi de Le pietre di Pantalica. Erano gli anni ’90 e questi appassionati cultori della civiltà contadina assurgevano, fra gli intellettuali, a riferimenti ideali: specie ora che, antichi come i tempi che mitizzavano, andavano scomparendo. Antonino Uccello ne aveva scoperti molti, utilizzando i loro saperi, compresa la produzione artigianale di utensili e simboli, per costruire un repertorio per i tempi futuri (se andate nella sua casa museo, a Palazzolo, ne avrete contezza).pantalica

Brancato era stato uno di questi; analfabeta e autodidatta, come la maggior parte, ma divorato dalla febbre della conoscenza e della trasmissione (accresciuta dai saperi acquisiti) alle generazioni future: «Il segreto di questo nettare (si riferiva all’idromele, che produceva) non lo svelerò a nessuno, lo passerò a mio figlio perché lo usi, custodisca e poi trasmetta ai suoi figli. Consolo, il grande scrittore, voleva che glielo svelassi. Ho spiegato che non potevo. Che nessuno di noi antichi, lo farebbe!»

Diceva queste cose con un sorriso ambiguo, quasi a rimarcare l’incapacità di dialogo con gli intellettuali, per l’approccio diverso a quello che noi esemplifichiamo come “bene culturale”.pantalica

Non ho più rivisto il vecchio Brancato, di lì a poco scomparso; ho conosciuto, invece, molti di coloro che egli aveva incontrato e che come allittràti, cioè intellettuali, auspicavano il primato e la diffusione di quei valori arcaici.

Ma temo che la loro voce afona fatichi a interessare il mondo attuale, catalizzato da un vortice tumultuoso e vacuo di conoscenze.

E le pietre di Pantalica stanno a guardare.pantalica

Pantalica: fotografie di Giulio Lettica

di Luigi Lombardo

Antonino Uccello nel suo magnifico “Del mangiar siracusano”, dedicato alla cucina della provincia di Siracusa, si serve di una serie di brani di autori suoi amici, letterati, storici locali, docenti, ciascuno con una sua ricetta di famiglia o appresa qua e là dalla madre o da qualche amico. Eccone un esempio: si tratta di un ricordo di un viaggio a Siracusa di Maria de Orchi, un’amica di Uccello (della quale non siamo in grado di dire nulla, ma doveva essere una buongustaia)

Antonino Uccello (1922-1979)

«A Siracusa sulla riva della posta a cavallo tra il porto grande e il porto piccolo, c’è il ristorante. Lì giungemmo dopo il viaggio che doveva condurci attraverso le suggestive zone del Ragusano, e nulla ci apparve più confortevole di una buona zuppa di pesce: la vivanda che – e forse in virtù del celebre vino siracusano cui era solito accompagnarla – Archimede non esitò a definire “Leggendaria”. E leggendario, invero, doveva a noi stessi apparire questo magnifico locale piatto marino, quando in virtù, appunto del rinomato “Albanello”, (vino bianco di grande pregio tipo Siracusa, prodotto col vitigno “Albanello”, nei due tipi: “Albanello secco” e “Albanello dolce”) che credevamo concluso il nostro pittoresco banchetto, e ciò che ci venne invece offerto, in una artistica coppa d’argento, quale autentico omaggio del riguardoso proprietario del ristorante, doveva giungere a noi come una rivelazione.

Il vitigno “Albanello”

Trattavasi, infatti, del “Moscato di Siracusa” lo splendido vino prodotto da tempo immemorabile nelle plaghe siracusane, noto nel periodo greco come “Pollio” o “Biblino” (dal re Pollio, venuto appunto dalla Biblina, una regione della Tracia, a governare Siracusa nel VII secolo a. C.).
Antichissima è l’esistenza di questo famoso vino, e non mancano le testimonianze per dimostrarlo. Basta recarsi al Museo Archeologico di Siracusa per potervi ammirare un’anfora “Lekytos” del V secolo a. C., della capacità di 800 grammi, recante nella fascia superiore la scritta “Pollion”. Ciò rende evidente come gli antichi Greci lo adoperassero per versare il Pollio, ovvero il moscato di Siracusa.

Mosaico di epoca greca raffigurante la coltivazione di viti

Questo famoso vino doveva continuare a fare presa sui buongustai per lunghi secoli e conservare intatti, fino ai giorni nostri, i propri caratteri organolettici. La sua antica fama e la continuità della sua tradizione (sebbene la produzione sia oggi alquanto limitata), non sono soltanto dovute alla qualità dei vitigni e alla bontà della locale gustosissima e profumatissima uva moscatella, ma al fatto che viene ottenuto con l’identico procedimento adoperato per la prima volta dal Re Pollio, 2700 anni fa… quando già la predetta uva vantava in Siracusa, da tempo immemorabile, un eccellente primato.

Ed ecco la leggenda per la quale il celebre moscato di Siracusa doveva appropriarsi gli attributi più significativi della propria antica squisitezza. Si narra, infatti, che l’uva moscatella siracusana acquistasse dolcezza e consistenza allorché uno stuolo di insetti sacri ebbero ad irrompere nella vigna di Falaride, tiranno di Akragas, favorendone il rigoglio e dotando ogni grappolo di un nettare succulento.

Particolare di anfora greca

Sebbene notissimo per la crudeltà, lo stesso Falaride nutriva per l’unica figlioletta, nata cieca, un immenso amore; per cui il fatto che essa mostrasse viva attrazione per l’uva della sua vigna e ne fosse ghiottissima, impegnava il tiranno nella più gelosa difesa di questa, inducendolo a stabilirne una sorveglianza continua, affinché alla piccola non venisse mai a mancare la gioia di gustare i prelibati grappoli. reclutò perciò allo scopo, mettendolo a guardia del vigneto, un giovane contadino, vinto dal sonno, chiuse gli occhi e si assopì, non avvedendosi così della presenza nella vigna della piccola cieca, né di quello che stava accadendo intorno a lui.

Falaride, tiranno di Akragas (VI sec. a.C.)

Riaprì gli occhi soltanto in tempo per accorgersi della fuga di un folto stuolo di insetti, tutti variegati d’oro, che, nel frattempo aveva invaso il vigneto, lasciando su ogni chicco d’uva una misteriosa impronta. Il suo turbamento, temendo per l’incolumità della bimba di Falaride, fu grande; ma altrettanto fu la sua gioia nel constatare che essa era … sana e salva, e nell’apprendere da lei che l’uva aveva cambiato da quel momento sapore.

Egli stesso l’assaggiò: la nuova squisitezza non poteva derivare che da un prodigio… Quello stesso, infatti, per cui invisibilmente la dea Demetra aveva operato, inviando nel vigneto i sacri insetti, a favore e gaudio della piccola cieca, e… dell’umanità tutta, quindi, che da quel giorno, poté gustare la prelibata uva e l’altrettanto prelibato vino che da essa doveva sprizzare con tanta generosità e con tanta soave dovizia: era nato il pollio siracusano!».