di Giusi Pizzo
Da quando la mia giovane alunna Sofia mi ha spiegato che un boomer è “qualcosa di veramente brutto” (sic!), confesso di aver ospitato in me un piccolo inquieto dubbio, poi fugato da un calcolo veloce che mi colloca – con sollievo mio e di Sofia– in quella che il Pew Research Center chiama Generazione X, ossia generazione-ponte tra i famigerati boomers e i cosiddetti millennials (Generazione Y), tra un’era d’identità certe e una d’identità liquide, tra sicurezza e precarietà, tra analogico e digitale.
Etichette che sociologi e demografi usano, non senza ambiguità semantiche e contrastanti definizioni. La mia generazione, per intenderci, è quella della caduta del muro di Berlino e dell’attentato alle Torri Gemelle e, in termini pop, quella di Dalla, De Andrè, Madonna e gli U2.
Sofia, che appartiene alla Generazione Z (quella dei nativi digitali o selfie-generation) si percepisce estranea a quella babele di suoni ed eventi passati, così come io, a vent’anni, mi percepivo altro da chi i suoi vent’anni li ha vissuti nell’Età dell’oro, per dirla con Hobsbawm, cioè nell’età della ricostruzione post-bellica, oppure nei cortei del ’68.
Eppure la mia generazione, nonostante il disincanto e il venir meno della passione civile, ha comunque mantenuto un legame rosso-sangue con le precedenti, coltivandone la memoria ed ereditandone i modelli educativi. Un filo che si dipana tra la conquista di spazi e libertà, una ricerca romantico-retorica dell’identità e il grande abbaglio delle ideologie. Meno partecipe e meno ideologica, ha accompagnato l’esaurirsi della dimensione attiva e dialogica del pensiero, dentro cui la politica è possibile e al di fuori della quale esistono solo individualità egotiche.
Rinunciando all’approccio argomentativo alla realtà, proprio della dialettica delle domande e delle risposte che pone in essere una prospettiva comune, ha consumato quel processo insito nella società di massa che la Arendt chiama “perdita del mondo” o “polis perduta”. Come se la battaglia per l’uguaglianza avesse solamente conformato gli individui, dentro una sfera pubblica che non sa più, scrive la Arendt, “riunire le persone impedendo che si cadano addosso”.

Le trasformazioni profonde del vivere e del sentire – esistenziale, sociale, economico – hanno travolto certezze e quotidianità e, in assenza di un soggetto comunitario e politico in grado di far fronte al cambiamento e alla complessità della nuova rivoluzione, decifrandola o de-cantandola, la Generazione X ha tollerato tutto e a tutto si è abituata. Generazione di transizione, dunque, ma sostanzialmente passiva, genitrice dei Millennials e della Generazione Z, a cui trasmette le caotiche risultanze di quella condizione di tiepida partecipazione al farsi della Storia, non frutto di confronto civile e democratico, ma decisa altrove, da soggetti economici privi di volto e difficilmente identificabili.

Levata l’ancora, la cosiddetta Next Generation, naviga tra i flutti imprevedibili e implacabili del dio-mercato, dove c’è posto solo per il paesaggio solitario dell’individualismo, dentro cui persino l’alfabeto emotivo che consentiva di chiamare per nome i sentimenti, ha smesso di scrivere e raccontare. La mia generazione, poi, ha rinunciato ad educare, quando ha ridotto la formazione alla misurazione e l’individuo ad oggetto di cui calcolare ambigue e vacue competenze, estranee all’arte del vivere, ma funzionali all’incastro nell’arcipelago economico, anch’esso precario e incerto. Quell’arte del vivere che per i Greci significava consapevolezza delle proprie capacità ed esplicitazione di sé nella realizzazione del proprio daímon.

“Abbiamo fatto il raccolto – scrive Nietzsche – ma perché tutti i nostri frutti si corrompono?”. Quale notte abitata dalla speranza abbiamo consegnato alla Next Generation perché possa andare oltre questo tempo disabitato? Con quante riserve d’acqua sta attraversando il deserto?
